Era pugile, era nero, era gay. Troppo, per una persona soltanto e troppo negli anni Sessanta.
La vocazione di Emile Griffith (1938–2013) non sono i pugni ma i cappellini per signora, che disegna come il più elegante e raffinato tra i creatori di moda. È gentilissimo, veste come un lord, ma la vita lo porta a fare il boxeur.
La sua carriera dura vent’anni e 112 match, per cinque corone mondiali conquistate. Il suo cuore dolente lo porta a celare i suoi sentimenti e a ricorrere a lungo ad una fidanzata di copertura, Esther, che serve sia a lui sia al pugilato per nascondere l’indicibile verità.
Tutti sanno delle notti nei locali gay di Times Square, delle drag queen con cui si accompagna, del suo ragazzo Calvin; i giornalisti un giorno lo sorprenderanno mentre bacia un uomo nello spogliatoio, dopo un match.
In galera ci finirà, da innocente, per quattro anni, e in seguito verrà dimenticato dal mondo dello sport che aveva contribuito a nobilitare.
Sembrano cose di un altro mondo, invece è tutto accaduto appena una sessantina di anni fa. Una vita rovinata solo perchè quest’uomo non rispettava un dictat tanto bugiardo quanto ipocrita: Un pugile non poteva essere soltanto un vero uomo, ma doveva esserlo secondo i canoni che la società imponeva.
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