C’è una domanda che continua a tornarmi in mente ogni volta che mi trovo ad assistere a una lezione di autodifesa estrema, e in particolare quando si parla di Krav Maga nella sua forma originaria: è davvero possibile insegnare un sistema nato per la guerra, per la sopravvivenza in situazioni limite, a persone comuni? Persone che nella maggior parte dei casi non hanno mai dovuto mettere a repentaglio la propria incolumità, e che non sono abituate — né forse disposte — a guardare negli occhi la brutalità necessaria per colpire con decisione la gola o cavare un occhio a mani nude.
Personalmente, non so se mi spingerei fino a definire il Krav Maga originale un’arte marziale “irrealistica” da insegnare. Ma riconosco che siamo di fronte a una disciplina che non è solo tecnica: è mentalità, condizione, adattamento emotivo, capacità di violare — o almeno sospendere — il proprio codice morale, almeno nel momento in cui la sopravvivenza lo impone. È su questo che ruota tutto il discorso, ed è proprio qui che molti programmi falliscono o diventano semplici attività ricreative. La tecnica, per quanto precisa, non basta. Serve contesto. Serve realismo. E soprattutto, serve abituare il corpo e la mente a reagire sotto pressione, nel caos, nel dolore, nella paura.
Uno degli aspetti più rilevanti, forse il più sottovalutato, di qualsiasi arte marziale che abbia la pretesa di prepararti a uno scontro reale, è lo sparring dal vivo. Lo sparring non è solo un esercizio di coordinazione o un confronto controllato: è un laboratorio di problem solving, un test continuo di adattabilità. Lo sparring ti insegna a fallire, a correggerti in tempo reale, a vedere svanire l'efficacia della tua tecnica e a improvvisare. Ti insegna che nulla va mai come nei video, che il tuo avversario non collabora, che i colpi arrivano quando meno te li aspetti e che ogni secondo speso a pensare è un secondo in cui puoi essere colpito.
Senza questo tipo di esperienza diretta, senza l’inevitabile frustrazione dello sparring, gli studenti finiscono per coltivare un’illusione di sicurezza. Sanno che dovrebbero colpire alla gola, che dovrebbero reagire con decisione, ma non sanno cosa succede quando la gola si sposta, quando il corpo suda, trema, si ritrae. Non sanno cosa accade quando l’adrenalina offusca la vista, quando il panico prende il sopravvento. Senza questo tipo di addestramento, molti credono di essere pronti solo perché hanno imparato una sequenza, perché hanno ripetuto cento volte un movimento che però non hanno mai dovuto eseguire davvero, contro un corpo resistente, in movimento, aggressivo.
A rendere ancora più complesso l’insegnamento del Krav Maga è la sua essenza stessa: una disciplina pensata per neutralizzare la minaccia nel più breve tempo possibile, usando tutto ciò che si ha, colpendo dove fa più male, ignorando i limiti morali che nella vita civile ci tengono in equilibrio. Ecco allora che ci si scontra con una barriera invisibile ma potentissima: quella della mentalità. Non parlo solo della volontà di fare del male, ma della capacità di superare il proprio sistema di valori morali nel momento in cui è necessario. È facile dire “gli caverei un occhio”. Ma è un’altra cosa affondare davvero le dita in una cavità o stringere una trachea con tutta la forza di cui si è capaci, sapendo che potresti causare danni irreversibili. Serve una riconfigurazione del pensiero, una disposizione mentale che non è né naturale né facilmente accessibile. E questo non si insegna con le slide.
Per questo motivo, ogni volta che parlo con istruttori seri, sento sempre lo stesso ritornello: tutto dipende da come ti alleni, da chi ti allena, e soprattutto da chi si allena con te. Il contesto fa la differenza. Un buon programma, strutturato, condotto con disciplina e integrità, può forgiare persone efficaci, mentalmente e fisicamente pronte a reagire sotto pressione. Non si tratta di coltivare la violenza, ma di addestrare alla lucidità. Ma un programma efficace richiede dedizione, sudore, esposizione al rischio controllato, confronto costante. E richiede compagni e istruttori che non ti assecondano, ma ti mettono in difficoltà. Che non ti permettono di galleggiare nel comfort, ma ti spingono fuori dal guscio, verso quella zona grigia dove impari davvero cosa sei in grado di fare.
Al contrario, se le persone non si impegnano, se frequentano il corso come fosse un’attività del tempo libero, se i compagni si trattano con i guanti e gli istruttori evitano lo stress fisico ed emotivo per non perdere clienti, allora tutto si svuota. Si riduce a coreografia, a rituale, a comfort zone. In quel caso, il Krav Maga — come qualunque altra arte marziale — diventa più un hobby che un programma realmente efficace. E chi lo pratica, senza saperlo, si espone al rischio più grande: credere di essere pronto quando non lo è. Avere la presunzione di sapere cosa fare in caso di aggressione, senza aver mai davvero testato la propria reazione, senza aver mai sentito la scarica di adrenalina che ti paralizza o ti trasforma, a seconda di quanto sei stato addestrato.
Alla fine, forse la domanda giusta non è se il Krav Maga sia irrealistico. Ma se la società in cui viviamo è ancora capace di accettare l’idea che la violenza, in certi contesti, non si combatte con i principi ma con la prontezza. E che la prontezza, come tutto, si costruisce con l’esperienza. Ma l’esperienza richiede esposizione, rischio, dedizione. Non è per tutti. E non deve esserlo. Ma è questo che distingue un programma serio da una messa in scena. E a chi mi chiede se vale la pena continuare a insegnare un sistema tanto diretto e spietato, io rispondo: sì, ma solo se sei disposto a perdere clienti, a farti odiare, a dire la verità. E la verità è che la sopravvivenza è una scelta difficile. Chi la prende sul serio, non si limita a imparare le tecniche. Impara a cambiare se stesso.
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