mercoledì 23 luglio 2025

UFC 1 e la fine dell’illusione: come le MMA hanno trasformato le arti marziali tradizionali

Quando l'UFC 1 andò in scena nel 1993, qualcosa di irreversibile accadde nel mondo delle arti marziali. Per la prima volta davanti a un vasto pubblico occidentale, si vide crollare la facciata costruita da decenni di propaganda, fantasie cinematografiche e narrazioni prive di riscontro reale. L’evento smascherò molte delle bugie raccontate da quelle arti marziali che, con il tempo, si erano allontanate dalla loro funzione originaria: il combattimento.

È fondamentale chiarirlo subito: la critica non è rivolta alla tradizione in sé.

Anzi, la Muay Thai è “tradizionale”.

Il Catch Wrestling è “tradizionale”.

La boxe lo è, così come il Jiu-Jitsu brasiliano.

Nessuno, nel mondo delle MMA, oserebbe mai metterle sullo stesso piano dell’Aikido, della Bujinkan, del Jeet Kune Do o di gran parte del Kung Fu contemporaneo. Eppure, tutte queste discipline da combattimento — Muay Thai, boxe, Catch, BJJ — hanno radici culturali profonde, cerimoniali, rituali. Sono tradizionali, sì. Ma non hanno mai smesso di essere funzionali.

Le arti marziali, per definizione, sono lotta. Sono conflitto. Ogni arte marziale che tradisce questo principio, che lo edulcora o lo dimentica, è destinata a diventare inefficace. Non si parla qui di falsità: l’inefficacia non è necessariamente menzogna. Ciò che è falso è deliberatamente ingannevole, fraudolento. Ma ciò che è inefficace può nascere anche da un errore sincero, da una degenerazione lenta e inavvertita. La differenza è cruciale. Perché, purtroppo, in mezzo a tanti praticanti in buona fede, si sono sempre nascosti ciarlatani, imbroglioni e folli convinti di essere guerrieri.

Prima dell’esplosione delle MMA, alcune arti marziali oggi considerate “inutili” godevano ancora di una certa credibilità grazie a una generazione di maestri che, in passato, avevano davvero combattuto. Molti praticanti di Aikido, per esempio, provenivano da un Giappone duro, segnato dalla guerra e da un’epoca in cui la violenza era ancora parte concreta della vita quotidiana. Questi uomini, formati in un contesto brutale, avevano trasmesso una conoscenza reale. Ma dopo la guerra, per quarant’anni, la pratica marziale si svuotò gradualmente della sua componente di lotta reale. E quando l'UFC 1 arrivò, ciò che restava era un guscio: tecniche mai testate, movimenti coreografati, illusioni.

I giovani combattenti che salirono nell’ottagono all’inizio degli anni ’90 erano spesso cresciuti allenandosi in queste arti incomplete, ignorando cosa fosse un ground and pound, come si eseguisse una proiezione sotto pressione o come si controllasse un avversario sul pavimento. Il Jiu-Jitsu brasiliano si impose proprio perché colmava quel vuoto. Allo stesso tempo, in Occidente, il wrestling si era ormai trasformato in un melodramma muscolare, perdendo ogni legame con la lotta reale.

Le MMA hanno ricordato a tutti che l’efficacia in combattimento non può basarsi solo sui colpi. Un sistema completo comprende tutte le fasi dello scontro: pugni, calci, prese, proiezioni. Questi elementi, un tempo presenti nei sistemi originari, erano stati via via separati. In Giappone come in Occidente, la tendenza era quella di valorizzare solo gli scambi in piedi. Il grappling fu ignorato, fino a scomparire quasi del tutto dal karate tradizionale di Okinawa.

Ma l’impatto delle MMA è stato anche culturale e sociologico. Negli anni ’80, le arti marziali non da combattimento — Aikido, Kung Fu, Karate “spirituale” — attiravano un pubblico adulto e atletico. I dojo erano frequentati da uomini maturi, sportivi, desiderosi di migliorarsi attraverso una disciplina codificata. Oggi, quegli stessi ambienti si sono trasformati. L’Aikido è rimasto con una base fatta perlopiù di praticanti anziani, hippy e donne. Quasi nessun atleta, nessun giovane agonista. Tutti gli altri sono confluiti nelle palestre di MMA, BJJ, boxe, Muay Thai. Dove si fatica. Dove si cade. Dove si perde, e si impara.

In fondo, le MMA non hanno fatto altro che restituire la verità al centro della pratica: la realtà del confronto fisico. Non hanno distrutto le arti marziali tradizionali. Hanno solo separato ciò che funziona da ciò che non funziona. Chi oggi insegna o pratica un’arte marziale deve fare i conti con questa realtà. Non basta un kata eseguito con grazia. Non bastano dieci dan o un certificato di scuola giapponese. Serve dimostrare, concretamente, che quella tecnica, quella posizione, quella proiezione — funziona. E che funziona contro qualcuno che non vuole collaborare.

L’illusione è finita nel 1993. E da allora, non si è più tornati indietro.

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