Nel vasto panorama della storia del pugilato, pochi nomi evocano
terrore e ammirazione come quello di Iron Mike Tyson. Un
prodigio della violenza incanalata, un uragano in calzoncini neri,
una forza bruta mascherata da tecnica scolpita sotto la guida di Cus
D’Amato e Kevin Rooney. Eppure, esistette un uomo, Evander
Holyfield, che riuscì a decifrare ciò che pareva indecifrabile. Lo
fece con intelligenza tattica, forza d’animo e un piano di
battaglia preciso: combattere Tyson là dove Mike era più
vulnerabile. Semplicemente, all’interno.
Per quanto possa sorprendere i meno esperti, Mike Tyson non
era affatto un combattente da corta distanza. Il suo stile,
elaborato nel solco della “peek-a-boo” di D’Amato, era basato
su velocità esplosiva, angolazioni improvvise, e combinazioni
micidiali partite da una media distanza. Là dove
poteva caricare il destro e seguire con il sinistro in una danza
letale. Ma ridurre quella distanza significava rompere il suo
tempo di esecuzione, neutralizzare la sua potenza,
obbligarlo a lottare nel clinch, dove non era a suo agio. E questo,
esattamente questo, fu ciò che Evander Holyfield fece con arte
chirurgica.
Quando i due si affrontarono per la prima volta nel novembre del
1996, le aspettative erano sbilanciate. Tyson era ancora l’uomo più
temuto del pianeta. Ma Holyfield non solo aveva sparring di
qualità alle spalle, aveva una memoria storica e
un’intelligenza tattica superiore alla media. Anni prima,
da dilettante nei pesi massimi leggeri, aveva incrociato i guanti con
un giovane Tyson, accumulando esperienze preziose. Per prepararsi al
match del ‘96, Holyfield fece anche qualcosa di insolito: assunse
David Tua come sparring partner, un pugile noto per la sua
compattezza, aggressività e potenza esplosiva, simile al Tyson dei
giorni migliori.
Non era una scelta casuale. Evander stava perfezionando una
strategia ben precisa: soffocare Mike all’interno,
impedirgli di caricare i colpi, e sfinirlo col fisico, col volume e
con il clinch, un’arte che conosceva bene. Chi oggi riduce
quella prestazione storica a “testate e trattenute” dimostra una
comprensione superficiale del pugilato. Holyfield neutralizzò Tyson
tecnicamente, tatticamente, atleticamente.
È utile ricordare che il Tyson degli anni ’90 non era più
quello plasmato dal defunto Cus D’Amato o dal disciplinato Kevin
Rooney. Don King, sempre più influente nel suo entourage, spinse
Tyson a licenziare Rooney, rompendo l’ultimo
legame con quella fase aurea della sua carriera. Da lì in avanti,
Mike divenne una versione incompleta di sé stesso:
meno testa, più impulso. Più attacco, meno difesa. Meno disciplina,
più istinto.
Quel Tyson non era pronto per un combattente come Holyfield. Lo
dimostrò in ogni scambio ravvicinato, dove Evander lo
malmenava, lo controllava, lo frustrava. Il match fu più
psicologico che fisico: Tyson, per una volta, non era l’uomo che
dettava il ritmo. Era l’uomo che lo subiva.
Non fu solo Holyfield a trovare la chiave. Anni prima, nel 1990,
James "Buster" Douglas – snobbato da
molti – aveva già scritto una pagina epica, dominando Tyson a
distanza con un jab preciso e una gestione intelligente della
distanza. Douglas, alto, dotato di buona tecnica e
resistenza, non cadde nella trappola della paura. Lo stesso farà,
anni dopo, Lennox Lewis, forse il più dotato dei
pesi massimi tecnici degli anni ‘90. Anche lui, con altezza,
allungo e una scuola pugilistica britannica raffinata, mantenne
Mike fuori portata, dominandolo con geometrie impeccabili.
Ecco dunque la verità poco raccontata: Tyson poteva
essere battuto. Bastava combatterlo o da molto vicino, come
Holyfield, oppure da molto lontano, come Douglas e Lewis. Il suo
territorio naturale, la media distanza, dove poteva
esplodere le sue combinazioni, andava evitato. E i grandi pugili lo
capirono.
Spesso i paragoni volano tra Mike Tyson e Joe Frazier,
altro icona del pugilato aggressivo. Ma è un confronto fallace.
Frazier era un maestro del combattimento da dentro,
con uno dei migliori ganci sinistri della storia e
uno scivolamento di tronco fenomenale. Come ricordava Jerry Quarry,
“Joe Frazier mi avrebbe distrutto completamente da dentro”.
Tyson, invece, aveva un potere esplosivo ma meno raffinato
nel corpo a corpo.
La sua arma era il volume di colpi, la ferocia, la velocità. Ma
non era il tipo di pugile che viveva nell’infighting.
Quando Holyfield ridusse lo spazio, Tyson non aveva le
risposte tecniche, né il piano B. La sua forza, come quella
di un predatore, era l’effetto sorpresa, la tempesta improvvisa. Ma
quando la tempesta veniva contenuta, quando l’avversario restava in
piedi e rispondeva colpo su colpo, Mike si dissolveva.
Una delle sliding doors della carriera di Tyson fu senza dubbio la
rottura con Kevin Rooney. Fino a quel punto, Mike era un
sistema perfetto, un equilibrio di potenza e controllo, un
progetto iniziato da Cus D’Amato e realizzato con metodo. Ma con
Rooney fuori scena, e Don King saldamente al timone, la disciplina
cedette all’egocentrismo, la dedizione alla distrazione.
Non è un caso che la sconfitta contro Buster Douglas arrivi
proprio in quel periodo. Tyson non era preparato mentalmente, né
fisicamente. E l’ombra del grande Don King, seppur brillante nelle
trattative, fu deleteria per la crescita tecnica di Iron
Mike.
Sia chiaro: Tyson è stato un pugile straordinario,
probabilmente unico nel suo genere. Ma l’aura di invincibilità,
alimentata dai KO fulminanti e dall’estetica della paura, non deve
far dimenticare le fragilità strutturali che Holyfield, Douglas e
Lewis seppero sfruttare. Il suo picco, tra il 1986 e il 1988, fu
travolgente. Ma fu anche breve. Il pugilato, come la storia, è
spietato con chi non evolve.
Mike aveva bisogno di un angolo intelligente, di allenatori
competenti, di strategia. Non solo di talento e potenza. Quando tutto
questo mancò, emersero le crepe. Quando affrontò Holyfield, quelle
crepe divennero fratture irreparabili.
Quella notte del 1996, Evander Holyfield non sconfisse
solo un pugile, ma un’illusione. Dimostrò che Mike Tyson
poteva essere contenuto, controllato, persino dominato. Lo fece con
disciplina, fede, strategia e coraggio. In uno sport
dove la brutalità spesso oscura l’intelligenza, Holyfield ci
ricordò che il pugilato è prima di tutto una battaglia di
menti, e poi di corpi.
Mike Tyson rimane, e rimarrà sempre, una delle icone più
luminose (e controverse) del pugilato moderno. Ma in quelle notti in
cui incontrò Holyfield, il mondo vide qualcosa di raro: la
caduta di un titano, e la vittoria dell’uomo che,
semplicemente, aveva capito come combatterlo nel suo punto cieco.
E il punto cieco di Tyson era, sorprendentemente, l’interno.