Il termine sanscrito saṃsāra
(devanāgarī संसार, "scorrere
insieme") indica, nelle religioni dell'India quali il
Brahmanesimo, il Buddhismo, il Giainismo e l'Induismo, la dottrina
inerente al ciclo di vita, morte e rinascita. È talora raffigurato
come una ruota.
In senso lato e in un significato più
tardo, viene ad indicare anche "l'oceano dell'esistenza",
la vita terrena, il mondo materiale, che è permeato di dolore e di
sofferenza, ed è, soprattutto, insustanziale: infatti, il mondo
quale noi lo vediamo, e nel quale viviamo, altro non è che miraggio,
illusione māyā. Immerso in questa illusione, l'uomo è
afflitto da una sorta di ignoranza metafisica (avidyā), ossia
da una visione inadeguata della vita terrena e di quella
ultraterrena: tale ignoranza conduce l'uomo ad agire trattenendolo
così nel saṃsāra.
Origine della dottrina
Non vi sono riferimenti alla dottrina
del saṃsāra nella religione vedica (XX-VIII secolo a.C.),
la quale è piuttosto concentrata ad ottenere mediante i sacrifici e
i riti il godimento (bhukti) della vita terrena.
Il primo riferimento alla dottrina del
saṃsāra sembra infatti comparire nel XVI verso del II
brāhmaṇa nel VI adhiyāya della Bṛhadāraṇyaka
Upaniṣad (IX-VIII secolo a.C.):
«Coloro che conquistano i
mondi celesti con il sacrificio, l'elemosina, l'ascesi, costoro
entrano nel fumo, dal fumo [passano] nella notte, dalla notte
nella quindicina della luna calante, dalla quindicina della luna
calante nel semestre in cui il sole si muove verso il Sud, da
questo semestre nel "mondo dei Mani, dal mondo dei Mani nella
luna. Giunti che siano alla luna, essi diventano nutrimento e gli
dei quivi se ne cibano come si cibano della luna con le parole
""Accresciti, riduciti!"". Poiché questa
[sosta] è per essi terminata, allora ritornano nello spazio,
dallo spazio passano nel vento, dal vento nella pioggia, dalla
pioggia sulla terra. Giunti che siano sulla terra, diventano cibo
e di nuovo sono sacrificati in quel fuoco che è l'uomo e
rinascono in quel fuoco che è la donna. Giungendo ai diversi
mondi, continuano così il loro ciclo. Ma coloro che non conoscono
queste due vie, rinascono come vermi, insetti e tutte le specie
che mordono.»
|
(Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad.
VI, 2, 16) |
Tale testo, databile tra l'VIII e il V
secolo a.C. appartiene all'ultimo capitolo del Śatapatha Brāhmaṇa
ovvero al commentario delle formule recitate dall'officiante dello
Śukla Yajurveda (Yajurveda bianco) denominato
adhvaryu.
Mentre il primo riferimento esplicito
alla dottrina del Saṃsāra, nell'ambito della letteratura
vedica, si ha nel VII verso della III valli della Kāṭha
Upaniṣad:
«Colui che è privo di
ragione, senza criterio, sempre impuro, costui non giunge alla
sede [suprema], ma ricade nel ciclo delle esistenze.»
|
(Kāṭha
Upaniṣad. III, 6)
|
La Kāṭha Upaniṣad, databile
probabilmente dopo il V secolo a.C. in quanto conterrebbe delle
influenze buddhiste, appartiene alla scuola dei Kaṭaka del
Kṛṣṇa Yajurveda (Yajurveda nero).
Riferimenti alla dottrina del Saṃsāra
sono cospicuamente presenti nella letteratura buddhista e giainista,
religioni coeve a buona parte delle Upaniṣad.
Così, nel Canone buddhista in lingua
pāli viene spiegata la nostra esistenza nel saṃsāra (pāli
samsāra):
«A Savatthi. Là il Benedetto del
Cielo disse: "È a partire da un inconoscibile principio che
viene la trasmigrazione. Il punto di principio non è evidente,
sebbene degli esseri impediti dall'ignoranza ed incatenati per
l'invidia insaziabile trasmigrano e continuano ad errare. Che ne
pensate, monaci,: Che cosa è più grande, le lacrime che avete
versato mentre voi trasmigrate ed erravate in tutto questo lungo
tempo - piangendo e lacrimosi di essere associati con ciò che è
sgradevole, di essere separati da ciò che è piacevole - o
l'acqua dei quattro grandi oceani"? "Così come noi
comprendiamo il Dhamma a noi insegnato dal Benedetto del Cielo,
questo è il più grande: le lacrime che abbiamo versato mentre
noi trasmigravamo ed erravamo in tutto questo lungo tempo -
piangendo e lacrimosi di essere associati con ciò che è
sgradevole, di essere separati da ciò che è piacevole - non
l'acqua dei quattro grandi oceani." "Eccellente, monaci.
Eccellente. È eccellente che comprendiate così il Dhamma che
insegno." "Questo è il più grande: le lacrime che
avete versato mentre voi trasmigravate ed erravate in tutto questo
lungo tempo - piangendo e lacrimosi di essere associati con ciò
che è sgradevole, di essere separati da ciò che è piacevole -
non l'acqua dei quattro grandi oceani."
Voi avete molto tempo, fatta l'esperienza della morte di una
madre. Le lacrime che avete versato sulla morte di una madre
mentre voi trasmigravate ed erravate in tutto questo lungo tempo -
piangendo e lacrimosi di essere associati con ciò che è
sgradevole, di essere separati da ciò che è piacevole - sono più
grandi dell'acqua dei quattro grandi oceani. Voi avete molto
tempo, fatta l'esperienza della morte di un padre... della morte
di un fratello... della morte di una sorella... della morte di un
figlio... della morte di una ragazza... di una perdita rispetto ai
genitori... di una perdita rispetto alla ricchezza... di una
perdita rispetto alla malattia. Le lacrime che avete versato su
una perdita rispetto alla malattia mentre voi trasmigravate ed
erravate in tutto questo lungo tempo - piangendo e lacrimosi di
essere associati con ciò che è sgradevole, di essere separati da
ciò che è piacevole - sono più grandi dell'acqua dei quattro
grandi oceani. "Qual è la ragione? È a partire da un
inconoscibile principio che viene la trasmigrazione. Il punto di
principio non è evidente, sebbene degli esseri impediti
dall'ignoranza ed incatenati per l'invidia insaziabile trasmigrano
e continuano ad errare. Voi avete molto tempo così fatta
l'esperienza del dolore, fatta l'esperienza della sofferenza,
fatta l'esperienza della perdita che riempie i cimiteri -
abbastanza per disingannarvi da ogni cosa fabbricata, abbastanza
per voi di non avere passioni, abbastanza per liberarvi."» |
(Samyutta
Nikaya. XV,3)
|
L'origine della dottrina del Saṃsāra
è dunque tutt'oggi controversa, ma come nota Brian K. Smith:
«In ogni caso, con il VI
secolo a.C. periodo in cui presero forma il Buddhismo antico e il
Jainismo da una parte e le Upaniṣad dall'altra, la teoria
della rinascita fu pressoché universalmente accettata»
|
Inoltre, come nota sempre Brian K.
Smith:
«Non c'è una visione
univoca della visione del saṃsāra e del processo di
rinascita. Ogni religione ha la posizione propria e all'interno di
ogni religione ci sono variazioni settarie»
|
Il saṃsāra nel Buddhismo
Per il Buddhismo dei Nikaya è il ciclo
vitale al quale tutti gli esseri senzienti sono sottoposti data la
condizione indisciplinata della loro mente. Accumulando karma
negativo di fatto gli esseri senzienti si "condannano" ad
una nuova rinascita di sofferenza in un livello inferiore
dell'esistenza (es. nel "regno animale" o degli "spiriti")
aumentando così la probabilità di essere più facilmente vittima
delle emozioni perturbatrici e precipitare dunque in un livello
ancora più basso d'esistenza. Anche l'accumulo di kamma (pāli,
karma, sanscrito) positivo comporta una rinascita nel ciclo,
anche se in condizioni più favorevoli, e, dato che è la vita in
quanto tale che fa sperimentare la sofferenza, la condizione migliore
è quella di un abbandono del Samsāra (Nibbāna).
Per le scuole del Buddhismo Mahayana
non vi è invece differenza tra samsara e nirvana. È nel regno in
cui la vita rinasce che si realizza il nirvana, ambedue i mondi sono
vuoti (sunyata) di qualsiasi proprietà inerente. La realizzazione di
questa profonda verità porta alla liberazione completa (bodhi). Così
Nagarjuna:
«Non vi è la minima
differenza fra samsara e nirvana, né la minima differenza fra
nirvana e samsara»
|
(Madhyamakakarika, XXV, 19) |
Iconograficamente il Saṃsāra viene
rappresento nel Buddhismo con la ruota dell'esistenza.
Il saṃsāra nel Giainismo
Saṃsāra nel Giainismo si pone nella
via della salvezza attraverso la rigida applicazione di una retta
condotta di vita atta a non produrre più i frutti dell'azione
(karman) e a esaurire quelli accumulati nelle esistenze precedenti.
Sull'esempio del fondatore, ciò si ottiene perseguendo l'ascesi, la
rinuncia, la mortificazione del corpo e la radicale non violenza
(ahimsa) nei confronti di ogni creatura animata, che per i jaina
significa ogni elemento e fenomeno naturale.
Non vi è devozione né nei confronti
degli dei né nel fondatore (detto anche Mahavira, “grande eroe”)
o degli altri ventitré tirthankara (“creatori del guado”),
profeti che compaiono nelle diverse epoche per ricostruire la giusta
conoscenza della dottrina. Solamente l'esempio dei siddha
(“perfetti”), le anime che sono riuscite a sottrarsi al samsara,
è realmente utile al credente. La fortissima base etica del
Giainismo si riflette sia nella tolleranza nei confronti di tutti gli
altri culti, sia nella forte diffusione tra i credenti di mestieri
non violenti quali soprattutto il commercio e la finanza, aspetto che
ha contribuito a rendere molto influente la ristretta ma compatta
comunità jaina.
Il saṃsāra nell'Induismo
Il ciclo delle rinascite, e delle
rimorti, è uno dei pochi concetti su cui concordano quasi tutte le
scuole dell'Induismo. Il motore di questo ciclo è riconosciuto nel
karman (azione; in modo non corretto, d'uso corrente, il termine
viene scritto karma). Secondo la dottrina del karman, qualsiasi
azione, e qualsiasi volizione, generano come effetto l'accumulo di
karman, che va considerato alla stregua di un bagaglio gravato da
tutto ciò che una persona ha compiuto, tanto nel bene quanto nel
male. Ciò comporta che, alla morte, l'elemento individuale sia
costretto a rinascere nuovamente, in forma umana ma anche divina,
demoniaca, animale o vegetale. Nella nuova esistenza l'individuo si
troverà in una condizione migliore o peggiore della precedente a
seconda della qualità morale del karman accumulato. Agendo in
modo corretto, il nuovo individuo si guadagnerà la possibilità di
ottenere una rinascita migliore; in caso contrario, rinascerà in una
condizione peggiore. Il fine ultimo è naturalmente estinguere il
proprio debito karmico fino a raggiungere il Mokṣa, la liberazione,
ovvero la definitiva uscita dal Saṃsāra.
Si rimane quindi prigionieri nel
Saṃsāra per un numero indefinito di volte, fino al totale
esaurimento del proprio bagaglio karmico. Le vie (mārga) che
possono essere seguite per giungere a tale obiettivo sono in buona
sostanza tre: la via del sacrificio rituale (karma-mārga), la
via della gnosi (jñāna-mārga) e la via della dedizione
amorosa a un dio (bhakti-mārga). Il Mokṣa è di norma
descritto come una sorta di condizione indistinta (ossia uno stato
del quale non è possibile dare una definizione positiva) ove non si
prova più né gioia né dolore. Gran parte delle correnti
devozionali, che seguono la corrente religiosa della bhakti,
identifica invece la liberazione come l'immergersi per sempre nella
perfetta e beata unione con l'amato dio.
Nella vita attuale ogni individuo deve
necessariamente compiere la propria esperienza, per poi poter
giungere alla liberazione definitiva (Mukti o Mokṣa: il termine
sanscrito significa, letteralmente, scioglimento), che è il
fine delle religioni e delle filosofie dell'India con l'eccezione
delle scuole materialiste (che ripudiano questa dottrina).
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