giovedì 12 aprile 2018

“Il combattimento: la biologia del combattimento umano“

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Il combattimento rappresenta l'insuccesso dell'intimidazione. Se i segnali di minaccia non riescono ad appianare una disputa, allora è possibile che si ricorra alle misure estreme e il conflitto può svilupparsi in un vero attacco fisico. Ciò è rarissimo nelle società umane, che sono in alto grado non-violente, malgrado quanto si suol dire in contrario, e ciò per una profonda ragione biologica. Ogni volta che un individuo ne attacca fisicamente un altro, vi è rischio che entrambi siano feriti. Per quanto superiore possa essere l'attaccante, non ha alcuna garanzia di uscirne illeso. Infatti il suo avversario, per quanto più debole  può esplodere con furia disperata in selvagge azioni difensive, ognuna delle quali potrebbe infliggergli un danno durevole. Per questa ragione le minacce sono di gran lunga più comuni del combattimento nella vita sociale ordinaria. In effetti, le lotte corpo a corpo e senza armi sono cosi rare, da renderne difficile l'osservazione.
La maggior parte della gente trae le sue informazioni dalle risse stilizzate che si vedono al cinema o alla televisione. Ma, in confronto ai veri combattimenti, quegli incontri cosi virili, con l'eroe e il malvagio che si picchiano a turno, sono poco più di un balletto. I movimenti reali vengono rallentati ed esagerati in maniera speciale per aumentarne l'impatto visivo, proprio come nella danza si esagerano gli ordinari movimenti del corpo. Ma in una vera rissa. per esempio in un bar, una volta che il combattimento è scoppiato, tutto avviene con molta più rapidità. L'attaccante esplode all'improvviso in una fulminea serie di pugni e calci; ad ogni azione ne segue rapidamente un'altra, per bloccare qualunque contrattacco.
La vittima può reagire in tre modi: arretrare, tentando di mettersi fuori portata. proteggere il proprio corpo come meglio può, oppure afferrare l'attaccante e trasformare l'attacco in uno stretto corpo a corpo. Se arretra, fugge o si protegge, l'altro può frenarsi presto, avendo raggiunto pienamente il suo scopo in pochi secondi. Ma se contrattacca. allora la sequenza del corpo a corpo. in cui nessuno dei due ha la meglio sull'altro, può prolungarsi per un certo tempo. spesso a terra, con i due che, oltre a scambiarsi colpi e a contorcersi strettamente uniti, spesso si strappano i capelli, si graffiano, tirano calci e persino si mordono. ("i veri combattimenti di strada contrastano in maniera nettissima con le stilizzate scene di rissa che vediamo nei film di Hollywood. Invece di scambiarsi soprattutto pugni alla mascella è più probabile che i combattenti rotolino allacciati al suolo, senza che l'uno o l'altro prenda decisamente il sopravvento"). Nella stilizzata rissa cinematografica, l'eroe comincia sovente il suo attacco con un singolo,  poderoso pugno alla mascella. che viene effettuato con un ampio movimento del braccio e non è immediatamente seguito da un secondo colpo. Sotto quasi tutti i rispetti questa è un'assurdità, come modello d'attacco dell'animale umano. Il movimento ampio del braccio lascerebbe all'avversario tutto il tempo di evitare il pugno, che,  per la sua forza e la sua portata. lascerebbe inoltre l'attaccante sbilanciato e vulnerabile. Anche la pausa dopo il colpo sarebbe fatale e la lentezza dell'attacco disastrosa. La lotta cinematografica continua poi con una serie di colpi più o meno alternati - una volta l'eroe, una volta il malvagio -, e l'intero processo si svolge come al rallentatore, in paragone a un combattimento reale. Quando una rissa o uno scontro di piazza si presentano nella vita vera, i combattenti sono spesso circondati da spettatori che sperimentano un forte conflitto tra il desiderio di assistere all'azione e quello di allontanarsene.
Il risultato è un ritmico ondeggiare della folla, a seconda che i contendenti si avvicinino o si allontanino da questo o quel settore: mentre uno si spinge avanti, l'altro si ritrae, come quando si disturba un branco di pesci. Poi, quando il combattimento si fa meno furioso, la folla svolge un ruolo nuovo. frapponendosi tra i contendenti momentaneamente separati: azione che può essere sfruttata dall'uno o dall'altro per sottrarsi alla lotta. Ancora una volta, sono la velocità e la brevità del combattimento disarmato che spiegano la relativa passività degli astanti e le accuse che si rivolgono loro per non aver impedito la rissa sono di solito ingiustificate.
Il combattimento dei bambini molto piccoli segue un modello analogo. Fra di essi le dispute hanno quasi sempre per oggetto la proprietà. Un bambino tenta di impadronirsi di un oggetto che appartiene a un altro. Si assiste allora a un rapido scontro e tutto è finito, con uno in possesso dell'oggetto e l'altro urlante e paonazzo. L'attacco può comprendere il dar spinte, calciare, mordere e tirare i capelli, ma l'azione più comune è il colpo dall'alto al basso, con la parte inferiore del pugno che colpisce il corpo dell'avversario, mentre l'azione comincia con il braccio rigidamente
piegato al gomito e sollevato verticalmente sopra la testa.. Da questa posizione, il colpo viene sferrato con tutta la forza verso il basso, su qualunque parte del corpo dell'altro bambino sia alla portata dell'attaccante. Questa azione sembra tipica dei bambini di tutto il mondo e può benissimo essere un modello di attacco innato nella nostra specie. Inoltre è interessante notare che più tardi, quando si sono apprese altre, più specializzate forme di attacco, il colpo dall'alto al basso ricompare nelle situazioni di scontro «informale». Le fotografie dei disordini di piazza. per esempio, mostrano quasi sempre questo tipo di colpo come forma predominante di attacco.
 Nell'adulto, naturalmente. esso è reso molto più pericoloso dall'uso di mazze e bastoni.
I dimostranti picchiano i poliziotti e i poliziotti picchiano i dimostranti allo stesso identico modo: facendo piovere colpi sui crani degli avversari. Sembra proprio un caso di « ritorno al primitivo», in termini di movimenti d 'attacco, perché vi sarebbero molti altri colpi più lesivi, da sferrare frontalmente invece che dall'alto. Un colpo diritto al viso, al tronco o ai genitali con un'arma appuntita farebbe senza dubbio più danno di uno sul cranio con un'arma ottusa, eppure queste forme «avanzate», culturalmente apprese, sono stranamente assenti da questi scontri informali.
Menzionando le armi, siamo entrati in un'area del comportamento aggressivo che è esclusivamente umana e crea alla nostra specie particolari problemi. Il corpo dell'uomo manca di qualunque arma biologica particolarmente letale, come artigli, zanne, corna, aculei, ghiandole che secernono veleno o pesanti mascelle. In confronto a molti altri animali, bene equipaggiati da questo punto di vista, l'essere umano è debolissimo, incapace, se deve combattere nudo corpo a corpo, di infliggere ferite letali (se non con un enorme sforzo fisico). Ma quando paragoniamo il primitivo combattente disarmato con il suo equivalente moderno, carico d'armi, risulta chiaro che abbiamo da tempo distanziato tutte le altre specie, quanto a capacità di uccidere. Ma, inventando armi di nostra fabbricazione, abbiamo prodotto numerosi mutamenti, tanto cruciali quanto catastrofici, nelle nostre azioni di combattimento.

1. Abbiamo costantemente aumentato la capacità lesiva dei nostri attacchi.
Aggiungendo all'assalto fisico prima corpi contundenti, poi strumenti acuminati, poi aggeggi esplosivi, abbiamo reso ogni nostro attacco, nel corso dei secoli, potenzialmente più letale.
Invece di sottomettere gli avversari, come gli altri animali, noi li uccidiamo.

2. Data l'artificialità delle nuove armi, abbiamo introdotto la possibilità dell'unilateralità nell'attacco fisico.
Non vi è più garanzia che entrambi gli avversari siano ugualmente ben equipaggiati. Quando due tigri combattono, esse hanno nei loro artigli mezzi di offesa che mancano agli esseri umani nel combattimento disarmato, ma tutte le tigri possiedono queste armi e ciò crea fra i combattenti un equilibrio inibitore. Nel combattimento umano armato, invece, si può facilmente verificare una situazione di enorme ineguaglianza: le armi superiori di cui uno dispone eliminano il timore della rivalsa, togliendo alla sua furia ogni inibizione.

3. L'efficienza sempre maggiore delle armi artificiali significa che per sferrare un attacco lesivo occorre uno sforzo sempre minore.
Invece di essere coinvolto nella violenza del combattimento disarmato, che richiede un grande sforzo muscolare, il moderno portatore d'armi deve effettuare soltanto la piccola, delicata operazione di piegare un indice, per spedire una pallottola nel corpo dell'avversario. Non c'è esaurimento fisico in un atto del genere, nessun intimo contatto con il corpo del nemico. Strettamente parlando, uccidere un uomo con un'arma da fuoco non è nemmeno un'azione violenta. L'effetto è violento, naturalmente, ma l'azione è tanto delicata quanto sollevare una tazzina di caffè. Questa mancanza di sforzo fisico lo rende un atto molto più facile da effettuare, aumentando ancora la probabilità che l'attacco abbia luogo.

4. La portata entro la quale le nostre armi possono operare con successo è costantemente aumentata.
Questa progressione ha avuto inizio quando abbiamo cominciato a lanciare un oggetto. invece di usarlo per colpire. Con l'invenzione delle frecce, le nostre armi a punta hanno potuto raggiungere il nemico a distanze ancora maggiori. La scoperta della polvere da sparo rappresentò un altro balzo in avanti: ora i proiettili potevano uccidere un nemico cosi lontano da non poterne distinguere i particolari. Ciò ha aggiunto al combattimento un elemento impersonale. eliminando ogni possibilità di segnali di sottomissione. Cosi le comuni inibizioni animali della lotta corpo a corpo sono state drasticamente ridotte.



5. Infine, la potenza delle armi a distanza è aumentata al punto che possiamo uccidere non uno, ma un gran numero di nemici in una frazione di secondo.
L'uso di bombe, lasciate cadere dal cielo o depositate con una spoletta a tempo, e l'introduzione della guerra chimica hanno portato all'estremo la spersonalizzazione e la disibinizione del combattimento. Le azioni dei combattenti sono ora del tutto non-violente - di solito basta premere un bottone, il che è ancora più delicato del tirare un grilletto - e, ancora una volta, sono effettuate da una tale distanza e con tale rapidità da eliminare completamente i consueti freni e controlli animali. Insieme, questi cinque fattori hanno trasformato il combattimento umano da un attacco violento, mirante alla sconfitta dell'avversario, a un atto delicato, mirante alla sua distruzione; dal picchiare e dominare un rivale, al disintegrare una moltitudine di invisibili estranei. Per fortuna, tuttavia, l'ultima fase di questo capitolo del progresso umano ha infine prodotto per suo conto una nuova inibizione. Con gli ordigni nucleari, siamo tornati allo stadio in cui l'attaccante può aver ragione di temere per la propria salvezza, poiché la potenza di queste armi è tale, che chi schiaccia il bottone ha molta probabilità di andare in fumo con tutti gli altri, in un olocausto globale. In altre parole, il potenziale distruttivo di queste bombe è cosi grande, che ha efficacemente rimpicciolito il mondo e ridotto le dispute internazionali a scaramucce circoscritte. Ancora una volta, l'impulso ad attaccare comporta l'immediato insorgere di un'acuta paura nell'attaccante, come avveniva nel combattimento disarmato. Tuttavia, questa nuova svolta nella storia del combattimento umano non elimina completamente la possibilità di un conflitto nucleare. Ne riduce soltanto la probabilità.
Una particolarità della condotta umana che ha sempre complicato la convivenza inter-gruppi non è l'aggressività della specie, ma, paradossalmente, la grande inclinazione dell'uomo all'amicizia. Questo senso di lealtà verso il gruppo ha ripetutamente portato ad attacchi, non contro un nemico, ma a sostegno di un compagno. E' questo spirito cooperativo che ha reso possibile trasformare il combattimento personale, limitato, in guerra di bande e la guerra di bande in sciovinismo militare. Le forze d'assalto organizzate non possono operare su una base personale. Esse richiedono disciplina e fedeltà alla causa, cioè due qualità che non hanno intrinsecamente nulla a che fare con il combattimento umano, ma hanno avuto origine nel gruppo di maschi cacciatori, dove la sopravvivenza dipendeva dalla lealtà al «circolo», e poi, sviluppandosi la civiltà e progredendo la tecnologia, sono state sempre più sfruttate nel nuovo contesto militare. La combinazione della tendenza alla cooperazione di gruppo e della spersonalizzazione dell'attacco, tipiche della condizione umana moderna, significa che saremo sempre suscettibili di pressioni da parte di capi spietati, che ci sproneranno a combattere per le loro cause. Essi non ci chiederanno di uccidere con le nostre mani nude, o di esercitare un grande sforzo per dare la morte, o di farlo a distanza ravvicinata, in modo che possiamo vedere le espressioni delle nostre vittime mentre le attacchiamo. Ma ci chiederanno di uccidere per aiutare i nostri compagni, che soffriranno orribili patimenti se non andremo in loro soccorso. L'argomento ha funzionato cosi spesso e così bene che, tragicamente. continuerà senza dubbio a farlo anche in futuro. La nostra unica difesa contro di esso consiste nel chiederci se abbiamo qualche motivo di attrito personale verso gli individui che dovremmo uccidere e se il «gruppo» che ci viene richiesto di sostenere sia davvero il nostro gruppo tribale, o non invece un artificiale gruppo «nazionale». composto da un miscuglio di molte « tribù» interconnesse, alcune delle quali traggono origine dal nostro nuovo cosiddetto nemico. Soltanto riprendendo a considerare il combattimento come una forma estrema di conflitto personale, ossia quello che era in origine, avremo qualche speranza di sfuggire all'incontrollata brutalità dei campi di battaglia umani, tornando alla moderazione del combattimento animale.

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1 commento:

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