giovedì 15 febbraio 2018

Liu Yunqiao

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Liu Yunqiao, 劉雲樵, zi Xiaochen 笑尘, soprannominato "Xiaobawang" 小霸王 (1909 – 24 gennaio 1992), è stato un artista marziale cinese.
Liu Yunqiao è il nome in Pinyin. Egli è nato nel villaggio Beitoucun 北头村 dell'area di Cangxian nella provincia di Hebei nella Cina del Nord nel 1909 ed è morto nel 1992 a Taiwan.
Ha studiato fin da bambino Mizongyi 迷蹤藝 da Zhang Yaoting 張耀庭, anche detto Zhang Kuaitui 張快腿, che serviva come Guardia del Corpo la famiglia Liu. Sempre con lo stesso insegnante ha studiato Taizu Changquan 太祖長拳. Da Li Shuwen ha appreso il Bājíquán, il Piguazhang e la lancia.
In seguito ha viaggiato nello Shandong dove ha potuto imparare Liuhe Tanglangquan da Ding Zicheng e Baguazhang da Gong Baotian.
Entrato nell'esercito ha partecipato alla guerra antigiapponese e alla guerra civile contro i Comunisti. A causa dell'esito favorevole a questi ultimi è fuggito a Taiwan dove ha assunto l'incarico di istruttore di Wushu delle guardie del corpo di Chiang Kai-shek.
Fonda la rivista "Wutan Zazhi" 武坛杂志.

mercoledì 14 febbraio 2018

Ātman

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La parola Ātman (devanāgarī आत्म‍ ) o Atta (Pāli) si riferisce a un "Io" o "Sé". Viene anche tradotta come "anima" o "ego". Le parole ātman e atta derivano dalla radice Indo-Europea *ēt-men (respiro) e sono parenti dell'inglese antico æthm, del tedesco Atem, e del greco atmo


Primi significati del termine

Per quanto riguarda il significato più generale del termine, vedi la voce Ātman.
Tale termine compare per la prima nel Ṛgveda, la più antica raccolta degli inni vedici (XX-XV secolo a.C.) dove indica che l'essenza, il soffio vitale, di ogni cosa è identificabile nel Sole (Sūrya):
(SA)
«citraṃ devānām ud agād anīkaṃ cakṣur mitrasya varuṇasyāgneḥ āprā dyāvāpṛthivī antarikṣaṃ sūrya ātmā jagatas tasthuṣaś ca»
(IT)
«Si è alzato il volto luminoso degli Dei, l'occhio di Mitra, di Varuṇa, di Agni, ha colmato il cielo la terra e l'aria: il Sole (Sūrya) è il soffio vitale di ciò che è animato e di ciò che non è animato»
(Ṛgveda I, 115,1)
Esso trae il significato da varie radici an (respirare), at (andare) va (soffiare).
Nel Śatapatha Brāhmaṇa, uno dei commentari in prosa dei Veda probabilmente composti in un periodo compreso tra il X secolo l'VIII secolo a.C., questa descrizione come "essenza" e "soffio che dà la vita" propria del Ṛgveda viene interpretata come una unità, trascendente ed immanente al tempo stesso, di tutta la Realtà cosmica e in questo senso un analogo del Brahman, la formula sacrificale che genera e mantiene il Cosmo.
Le successive riflessioni degli Āraṇyaka, con l'importanza data alla «coscienza di Sé» (prajñātman), e poi delle Upaniṣad, intorno all'VII-IV secolo a.C., iniziano a delineare l'ātman come Sé individuale distinto eppure inscindibile dal Sé universale (Brahman).
Anche se il buddhismo è fondato sulla teoria del "non sé" Anatta, alcuni insegnamenti della scuola Mahāyāna sostengono l'esistenza di una realtà ultima di un atman [Sé], che viene identificato con l'essenziale, la natura ultima della mente (Dalai Lama). Questa dottrina è conosciuta anche come Tathagatagarbha.

La definizione di atman nel buddismo

Candrakirti contestualizza così l'Atman : "Atman è l'essenza delle cose che non dipendono da altri fenomeni, ma che possiedono una natura intrinseca non condizionata". La non esistenza di questo è Anatta - Mancanza di un sé permanente. La dottrina dell'Atman nei Vedanta e la teoria del Dharma nel buddismo, si escludono a vicenda. Il Vedanta tenta di stabilire un Atman come base di tutto, mentre il buddismo afferma che tutto nel mondo empirico è solo un flusso di Dharma che passano (processi impersonali ed evanescenti), che devono quindi essere definiti Anatta, cioè, senza un sé persistente, senza un'esistenza indipendente. Il significato della parola Attan (nominativo: Atta, sanscrito: atman, nominativo: atma) si divide in due gruppi: nell'uso quotidiano, Attan ("Sé") serve per denotare la propria persona, e ha la funzione di un pronome riflessivo. Questo utilizzo è, per esempio, illustrato nel capitolo 12 del Dhammapada. Come termine filosofico, Attan indica l'anima individuale come ipotizzato dai giainisti e altre scuole contemporanee, ma - al contrario - respinta dai buddisti. Questa anima individuale rappresenterebbe una monade spirituale immutabile, perfetta e beato per natura, anche se le sue qualità possono essere temporaneamente oscurate, a causa della sua caduta nel mondo materiale. Quindi il termine "sé" (atman) designa qualsiasi entità individuale, eterna e immutabile, in altre parole, ciò che la metafisica occidentale chiama "sostanza": "Qualcosa che esiste grazie a se stessa, non attraverso qualcosa d'altro, né è collegata a, o inerente a, qualcosa d'altro". Nell'uso filosofico buddhista, Attan è, quindi, qualsiasi entità di cui si può erroneamente supporre che esista indipendentemente da tutto il resto, e che esista in base esclusivamente alle proprie forze.

La definizione di Anatta

Anattan (nominativo: anatta) è un sostantivo (sanscrito: Anatman) e significa "non-sé", nel senso di un ente che non è indipendente. Anatman significa "ciò che non è Anima (Sé o Spirito)," anche le scritture brahmaniche (fonti sanscrite) lo usano in questo senso. Il suo utilizzo frequente nel buddismo si spiega con la preferenza per le definizioni in negativo. Frasi come rupam anatta devono pertanto essere tradotti "gli aggregati del corpo sono un non-sé" o "non sono un'entità indipendente." La parola anatta è quindi qui tradotta con "non ha il carattere di un sé, non è indipendente, è priva di un sé (persistente), è priva di una sostanza (eterna)", ecc. Ciò è particolarmente evidente nel caso della parola anatta, che può essere sia un singolare sia un sostantivo plurale. Nella ben nota frase sabbe sankhara anicca - sabbe sankhara dukkha - sabbe dhamma anatta, "tutti i fattori dell'esistenza condizionata sono transitori, soggetti al dolore, tutti i fattori - condizionati e non condizionati (Nirvana incluso) - sono privi di un sé" si afferma che un Sé permanente non esiste, ne' nel mondo condizionato (che cade sotto i nostri sensi), ma nemmeno tra i dhamma non condizionati che non hanno avuto inizio e sono "senza morte". Perciò è detto: Ci sono tre insegnanti in tutto il mondo. Il primo Maestro insegna l'esistenza di un ego eterno che supera la morte: questo è l'Eternalismo, come ad esempio insegna il cristianesimo o l'induismo. Il secondo Maestro insegna che esiste un'entità temporanea che viene annientata con la morte: questa è la tesi materialista. Il terzo Maestro insegna che non esiste né un Sé eterno, né uno temporaneo: questo è il Buddha. Il Buddha insegna che, ciò che noi chiamiamo ego, il sé, l'anima, la personalità ecc., sono termini puramente convenzionali che non fanno riferimento ad alcuna reale entità indipendente. E insegna che dobbiamo individuare questo processo psicofisico di cui è sostanziata l'esistenza e notare come cambia in continuazione. Questa teoria della non esistenza di un "Io impermanente" costituisce l'essenza della dottrina del Buddha.

Tutto è in fiamme

Una volta che un certo Monaco avvicinò il Beato, gli chiese: "Venerabile Signore, cosa si dovrebbe conoscere e sperimentare, per abbandonare una visione errata, per eliminare ogni falsa idea di un Sé permanente, per superare tutti i processi creati dall'Io? - Bhikkhu, quando si conosce e si sperimenta che ogni contatto visivo dell'occhio con le forme è impermanente, che le sensazioni che sorgono dal contatto visivo sono impermanenti, si capisce l'idea che "Questo è mio", "Questo sono io" deve essere superata, eliminata e abbandonata completamente... Nel "Sutta del fuoco" il Buddha spiega estensivamente come l'intero apparato percettivo sia in fiamme: non solo l'occhio ma anche il suo oggetto, le forme e il processo di percezione con la conseguente sensazione causata dal contatto della forma con lo sguardo che la percepisce



I diversi concetti di "Sé"

Mentre i sutta attaccano decisamente la nozione di un Sé eterno e immutabile, "considerano una persona illuminata come uno il cui Sé empirico è altamente sviluppato." Chi possiede un grande sé ha una mente che non è alla mercé degli stimoli esterni o dei suoi propri stati d'animo, ma è intrisa di autocontrollo e di contenuto. La mente diventa senza confini, non limitata da un'auto-identificazione fallace. Al culmine del suo sentiero, l'Arahant, viene descritto come "uno che possiede un sé sviluppato" (bhāvit-Atto), che ha effettuato il processo di sviluppo personale e di fiducia in se stesso, fino a giungere alla perfezione. Un Arahant è descritto come "uno la cui mente è come un diamante":
  • La virtù, la saggezza, e le facoltà meditative e spirituali sono ben sviluppate
  • Il corpo è "sviluppato" e "costante"
  • La Mente è "sviluppata", "salda", "ben liberata" e priva di volontà malvagie
  • Di fronte agli oggetti dei sei sensi, è equanime, non si confonde, vede solo ciò che vede, e sente solo ciò che sente. Non fa proiezioni mentali e ha superato gli ostacoli come l'attaccamento, il desiderio, e l'avversione
  • I sei sensi sono "controllati" e ben "custoditi";
  • Esercita il pieno "auto-controllo" (atta-Danto) e possiede "un ben controllato sé" (attanā sudantena)
  • È "Illimitato, grande, profondo, incommensurabile, difficile da capire, un grande tesoro, sorto (come il) mare".

Il movimento Dhammakaya e i suoi insegnamenti in materia di non-sé

Nel corso degli ultimi decenni (almeno dal 1939), si è sviluppata in Thailandia un movimento di monaci e maestri di meditazione, chiamato "Dhammakaya". Il Movimento Dhammakaya insegna che è erroneo sussumere sotto la voce anatta (non-sé), il nirvana, che invece sarebbe il "vero sé" o Dhammakaya. Questo insegnamento è sorprendentemente simile a quello dei Tathagatagarbha sutra. Paul Williams spiega così il punto di vista di questo movimento: il Dhammakaya sostiene che si ottiene la realizzazione, quando la mente raggiunge il suo stato più puro, in un incondizionato "Corpo del Dhamma" (Dhammakaya) sotto forma di figura luminosa, radiosa e chiara, di un Buddha privo di tutte le contaminazioni e situato all'interno del corpo del meditante. Questo è il Nirvana o "vero Sé", che corrisponde appunto al Dhammakaya. Il buddismo Theravada rifiuta questo insegnamento e insiste sul non-sé come elemento universale. A fronte di questo, Phra Rajyanvisith del Movimento Dhammakaya (che non si considera Mahayana, ma un Theravāda riformato) sostiene che solo ciò che è composto è condizionato è non-sé - mentre il nirvana è assoluto e non condizionato, quindi possiede un Sé non dipendente e auto-consistente.

La visione dell'Atman nel buddhismo Mahayana

Nel buddhismo Mahāyāna, esiste una classe importante di sutra, generalmente conosciuta come Natura del Buddha (Tathagatagarbha), alcuni dei quali affermano che, in contrapposizione all'impermanente sé mondano dei cinque skandha (le componenti fisiche e mentali del nostro sé), esiste un sé eterno, vero, che non è altro che il Buddha stesso, nella sua natura ultima nirvanica. Questo è il "vero sé", presente in ogni essere, la personalità ideale, raggiungibile da tutti gli esseri a causa della loro potenzialità innata di liberarsi dai condizionamenti mondani. La natura del Buddha non rappresenta un sé sostanziale (atman), ma piuttosto rappresenta la potenzialità di realizzare la buddhità attraverso pratiche corrette. L'intenzione degli insegnamenti del Buddha è soteriologica, piuttosto che teorica.
Prima del periodo Tathagatagarbha, Mahāyāna la metafisica era stata dominata dagli insegnamenti sulla vacuità. Il linguaggio usato da questo approccio è principalmente negativa, e il modello Tathagatagarbha dei sutra può essere visto come un tentativo di utilizzare un linguaggio affermativo, per evitare che le persone venissero scoraggiate da una falsa impressione di nichilismo buddhista. Il maestro buddista zen, Sekkei Harada, parla di un vero Sé nelle sue spiegazioni del buddhismo Zen. Questo vero Sé si trova quando si "dimentica l'ego". La dottrina del "non-io" in realtà significa risveglio di un sé che è senza limiti: "Non-sé significa risvegliare un Sé che è così vasto e senza limiti che non può essere visto." Harada conclude le sue riflessioni sul buddhismo Zen, parlando della necessità di un incontro con il Vero Sé: ... nella nostra vita c'è solo una persona che dovete incontrare, quella persona è il Sé essenziale, il vero Sé. Finché non si soddisfa questo Sé, sarà impossibile trovare vera soddisfazione nel cuore... Nel Mahaparinirvana Sūtra Mahāyāna, il Buddha è raffigurato mentre dichiara che tutti gli esseri partecipano alla natura del Buddha. Tutti gli esseri senzienti avranno nei secoli futuri l'illuminazione più perfetta, vale a dire, la natura del Budda. Per tali ragioni, ho sempre proclamato che tutti gli esseri senzienti hanno la natura di Buddha.
Alcuni sutra buddisti e tantra Mahāyāna parlano affermativamente del sé. Per esempio, il Sutra Mahabheriharaka e il Srimala Sūtra dichiara in modo inequivocabile: "Quando gli esseri senzienti hanno fede nel Tathagata [Buddha] ...hanno la giusta visione. Perché così? Perché il Dharmakaya [natura ultima] del Tathagata ha la perfezione della permanenza, la perfezione del piacere, la perfezione del sé, la perfezione della purezza". Un primo tantra buddista, il Guhyasamaja Tantra, dichiara: "Il puro Sé, adorno di tutti gli ornamenti, brilla di una luce di diamante ardente ..."[27]
Secondo la teoria Mahāyāna, il vero sé del Buddha è infatti puro, vero e beato, e raggiungibile da chiunque sia nello stato di Mahaparinirvana. Inoltre, l'essenza di quel Buddha - il Buddha-dhatu "principio di Buddhità"), è presente in tutti gli esseri senzienti e viene descritto come "raggiante e luminoso". QuestoBuddha-dhatu è detto nel ]]Sutra del Nirvana]] - "increato, immutabile, l'essenza immortale di tutti gli esseri (svabhava), che non può mai essere danneggiata o distrutta"..

Il XIV Dalai Lama e "la Persona sottile"

Nel 2005, commentando il Libro tibetano dei morti, un testo del Tantra Yoga, il XIV Dalai Lama ha spiegato come questo Tantra individua sia una persona temporanea, sia un "Persona sottile", che lo collega con la Natura del Buddha. "Quando guardiamo l'interdipendenza dei componenti mentali e fisici, dal punto di vista del Tantra Yoga, emergono due concetti di persona. Uno è la persona "temporanea o autonoma", che è così come si esplicita nell'attimo, basata sul corpo grossolano o fisico e sulla mente condizionata - allo stesso tempo - c'è una Persona sottile o autonoma che dipende invece dal corpo sottile e dalla mente sottile. Questo corpo sottile e la mente sottile, sono visti come una sola entità che ha due aspetti. L'aspetto che ha la qualità della consapevolezza, in grado di riflettere - e quello che ha il potere della conoscenza. Questi due aspetti congiunti formano la mente sottile. Contemporaneamente si manifesta l'energia, la forza che spinge la mente verso il suo oggetto - questo è il corpo sottile o vento sottile. Queste due qualità inestricabilmente congiunte sono considerate, nel Tantra Yoga, come la natura ultima di una persona e sono identificate con la natura del Buddha, la natura essenziale o reale della mente."

martedì 13 febbraio 2018

Pang De







Pang De (cinese semplificato: 庞德, cinese tradizionale: 龐德, pinyin: Páng Dé) (170 – 219) è stato un militare cinese, al servizio del primo ministro Cáo Cāo tra la fine della Dinastia Han e l'inizio del periodo dei Tre Regni.
Ufficiale Wei, serviva inizialmente il generale Ma Chao, ma viene catturato durante l'attacco di Cao Cao ad Han Zhong e cambiò fronte. Al servizio del Ministro, diviene famoso per la sua lealtà ed integrità. Durante la battaglia di Fancheng, combattuta nella primavera del 219 tra il Regno Wei, guidato da Cao Cao, ed il regno di Shu, rifiutò di arrendersi al comandante avversario Guan Yu, andando così incontro alla morte.
Si dice che prima della battaglia Pang De, certo di morire, avrebbe fatto allestire la sua stessa bara prima di scendere in campo. Nel romanzo storico del XIV secolo Romanzo dei Tre Regni di Luo Guanzhong si narra che Pang De avrebbe impartito alla moglie istruzioni per occuparsi nel migliore dei modi del figlio Pang Hui, e che avrebbe predetto che Pang Hui l'avrebbe vendicato, come in effetti successe quando Pang Hui massacrò l'intera famiglia del già defunto Guan Yu.

lunedì 12 febbraio 2018

Chi You

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Chi You (蚩尤) o anche Chiyou era un leggendario leader tribale della tradizione cinese, che comandava gli eserciti delle 9 tribù barbare Li (九黎), che furono combattute dal leggendario Imperatore Giallo durante il periodo mitico dei Tre Augusti e Cinque Imperatori. È considerato il capostipite del popolo Hmong (pronunciato nella loro lingua come "Txiv yawg"), che attualmente è stanziato nel sud-est della Cina, nei pressi dell'isola di Hainan.
Chi You è famoso per essere stato l'avversario dell'Imperatore Giallo durante la mitica battaglia di Zhuolu (attualmente nella prefettura di Zhangjiakou della provincia dello Hebei, a circa 150 km da Pechino). Questa fu combattuta dagli eserciti uniti di Huang Di (l'imperatore giallo) e di Yandi, condottieri della tribù Huaxia, contro i Li di Chi You stesso, per il controllo della valle di Huang He (Fiume giallo). La battaglia fu combattuta in una fitta nebbia e si racconta che gli Huaxia ebbero la meglio grazie all'uso della bussola magnetica.

domenica 11 febbraio 2018

Canone buddhista

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I testi sacri del Buddhismo (tradizionalmente indicati come Tripiṭaka, "tre canestri") sono attualmente raccolti in tre canoni: il Canone pāli (o Pāli Tipiṭaka), il Canone cinese (大藏經, Dàzàng jīng), e il Canone tibetano (composto dal Kangyur e dal Tanjur), così denominati in base alla lingua degli scritti.
I canoni buddhisti raccolgono gli insegnamenti, i sermoni, le parabole e i detti di Siddhārtha Gautama (il Buddha), le regole di vita all'interno del Sangha (la "comunità" dei fedeli, sia monaci che laici) e le tecniche per il raggiungimento del Nibbāṇa, ovvero l'"estinzione", intesa come liberazione dal saṃsāra, l'eterno ciclo karmico di nascita, morte e rinascita a cui sono soggetti tutti gli esseri senzienti.
Sebbene la religione buddhista sia divisa al suo interno in numerose scuole di pensiero, di cui le tre correnti maggioritarie sono il Theravāda, il Mahāyāna e il Vajrayāna, che hanno sviluppato dottrine contrastanti e prodotto testi altrettanto diversi, i canoni di tutte le scuole condividono alcune dottrine fondamentali, impartite dal Buddha stesso, che costituiscono il Dharma, la "legge morale" o "condotta di vita" che deve rispettare ogni fedele buddhista, e sono:
  • le Quattro nobili verità;
  • il Nobile Ottuplice Sentiero;
  • l'Ahimsa (compassione o nonviolenza);
  • la meditazione, che conduce alla Bodhi (illuminazione);
  • il Nibbāṇa, estinzione della sofferenza.

Il Canone pāli

Il Canone pāli è proprio del Buddhismo Theravāda, e si compone di tre piṭaka, o canestri: il Vinaya Piṭaka, o "canestro della disciplina", contiene le regole di vita dei monaci; il Sutta Piṭaka o "canestro della dottrina", contenente gli insegnamenti impartiti dal Buddha; infine l'Abhidhamma Piṭaka o "canestro della fenomenologia" in ambito cosmologico, psicologico e metafisico, che raccoglie gli approfondimenti alla dottrina esposta nel Sutta Piṭaka. Questo canone possiede una celebre edizione, trascritta in alfabeto latino e tradotta in lingua inglese, pubblicata in 57 volumi dalla londinese Pali Text Society tra il 1877 e il 1927.

Il Canone cinese

Il Canone cinese si compone di 2.184 testi a cui vanno aggiunti 3.136 supplementi tutti raccolti, nell'ultima edizione, in 85 volumi di stile occidentale pubblicati in Giappone (Tokyo, 1924-1929). Inaugurata durante l'era Taishō, questa edizione è detta comunemente "Canone dell'Era Taishō" (大正新脩大蔵經 Taishō Shinshū Daizōkyō) ed è divenuta lo standard di riferimento nei Paesi di antica influenza cinese.

Il Canone tibetano

Il Canone tibetano si suddivide in due raccolte, il Kangyur (composto da 600 testi, in 98 volumi, riporta discorsi attribuiti al Buddha Shakyamuni) e il Tanjur (raccolta, in 224 volumi, di 3.626 testi tra commentari e insegnamenti). Questo canone fu dato alle stampe in tibetano la prima volta a Pechino nel 1411, e solo nel 1742 in Tibet, questa edizione è in 333 volumi.
Parte dei Canoni cinese e tibetano si rifanno ad un precedente Canone tradotto in sanscrito ibrido sotto l'Impero Kushan e poi andato in buona parte perduto. Questi due Canoni furono adottati dalla tradizione Mahāyāna che prevalse sia in Cina che in Tibet. Il Canone sanscrito riportava tutti i testi delle differenti antiche scuole e dei differenti insegnamenti presenti nell'Impero Kushan. La traduzione di tutte queste opere dalle originali lingue pràcrite a quella sanscrita (una sorta di lingua dotta 'internazionale' come lo fu il latino nel Medioevo europeo) fu voluta dagli stessi imperatori kushan. Buona parte di questi testi furono successivamente trasferiti in Tibet e in Cina sia da missionari kushani (ma anche persiani e sogdiani), sia riportati in patria da pellegrini. Da segnalare che le regole monastiche (Vinaya) delle scuole presenti oggi in Tibet e in Cina derivano da due antichissime scuole indiane, rispettivamente dalla Mulāsarvastivāda e dalla Dharmaguptaka.




sabato 10 febbraio 2018

Nihongi

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Il Nihongi (日本紀), chiamato anche Nihon Shoki (日本書紀) ed a volte tradotto come Annali del Giappone, è il secondo libro in ordine cronologico della storia giapponese classica. È più elaborato del Kojiki, che è stato scritto prima del Nihonji ma si occupa principalmente degli aspetti religiosi della corte imperiale.
Si è dimostrato di inestimabile valore per gli storici poiché include le registrazioni più complete riguardanti gli eventi e le decisioni prese alla corte imperiale giapponese nei suoi periodi più antichi. Il Nihon Shoki fu terminato nel 720 sotto la supervisione del principe Toneri, figlio dell'imperatore Temmu, con l'assistenza dello storiografo Ō-No-Yasumaro. È il primo delle sei storie nazionali (六国史 Rikkokushi), le antiche cronache riferite alla storia dell'impero fino all'887.

Contenuto

Come il Kojiki, il Nihon Shoki inizia con i racconti della mitologia giapponese: la nascita delle prime divinità, elencate in una lunga e a volte confusa lista di nomi, prosegue con la comparsa di una coppia di dèi, fratello e sorella: Izanagi e Izanami, dalla cui unione nacquero le Ōyashima, le 8 isole che originariamente costituirono il Giappone. Poi continua le sue narrazioni fino al periodo contemporaneo alla stesura dell'opera.
Si compone di trenta volumi che narrano le vicende del Giappone fino al 697 d.C., riportate in rigoroso ordine cronologico e storicamente abbastanza attendibili solo in riferimento agli ultimi tre secoli della narrazione. Al pari del Kojiki, ha come scopo la glorificazione del passato e la legittimazione del diritto perpetuo della dinastia regnante.
Si pensa che descriva con accuratezza i regni dell'imperatore Tenji, dell'imperatore Temmu e dell'imperatrice Jitō, e si focalizza sui meriti dei sovrani virtuosi e sui demeriti di quelli cattivi. Descrive episodi dell'era mitologica del Giappone ma anche i contatti con gli altri paesi.
Mentre il Kojiki era scritto in giapponese (traslitterato con caratteri cinesi), il Nihon Shoki era scritto in cinese classico, come era usanza per i documenti ufficiali del tempo, ed era ispirato al modello delle storie ufficiali cinesi.

Capitoli

  • Capitolo 01: (Primo capitolo di miti) Kami no Yo no Kami no maki.
  • Capitolo 02: (Secondo capitolo di miti) Kami no Yo no Shimo no maki.
  • Capitolo 03: (Jinmu) Kamuyamato Iwarebiko no Sumeramikoto.
  • Capitolo 04:
    • (Suizei) Kamu Nunakawamimi no Sumeramikoto.
    • (Annei) Shikitsuhiko Tamatemi no Sumeramikoto.
    • (Itoku) Ōyamato Hikosukitomo no Sumeramikoto.
    • (Kosho) Mimatsuhiko Sukitomo no Sumeramikoto.
    • (Koan) Yamato Tarashihiko Kuni Oshihito no Sumeramikoto.
    • (Korei) Ōyamato Nekohiko Futoni no Sumramikoto.
    • (Kogen) Ōyamato Nekohiko Kunikuru no Sumramikoto.
    • (Kaika) Wakayamato Nekohiko Ōbibi no Sumeramikoto.
  • Capitolo 05: (Sujin) Mimaki Iribiko Iniye no Sumeramikoto.
  • Capitolo 06: (Suinin) Ikume Iribiko Isachi no Sumeramikoto.
  • Capitolo 07:
    • (Keikō) Ōtarashihiko Oshirowake no Sumeramikoto.
    • (Seimu) Waka Tarashihiko no Sumeramikoto.
  • Capitolo 08: (Chuai) Tarashi Nakatsuhiko no Sumeramikoto.
  • Capitolo 09: (Jingu) Okinaga Tarashihime no Mikoto.
  • Capitolo 10: (Ojin) Homuda no Sumeramikoto.
  • Capitolo 11: (Nintoku) Ōsasagi no Sumeramikoto.
  • Capitolo 12:
    • (Richu) Izahowake no Sumeramikoto.
    • (Hanzei) Mitsuhawake no Sumeramikoto.
  • Capitolo 13:
    • (Ingyo) Oasazuma Wakugo no Sukune no Sumeramikoto.
    • (Anko) Anaho no Sumeramikoto.
  • Capitolo 14: (Yuryaku) Ōhatsuse no Waka Takeru no Sumeramikoto.
  • Capitolo 15:
    • (Seinei) Shiraka no Take Hirokuni Oshi Waka Yamato Neko no Sumeramikoto.
    • (Kenzo) Woke no Sumeramikoto.
    • (Ninken) Oke no Sumeramikoto.
  • Capitolo 16: (Buretsu) Ohatsuse no Waka Sasagi no Sumeramikoto.
  • Capitolo 17: (Keitai) Ōdo no Sumeramikoto.
  • Capitolo 18:
    • (Ankan) Hirokuni Oshi Take Kanahi no Sumeramikoto.
    • (Senka) Take Ohirokuni Oshi Tate no Sumeramikoto.
  • Capitolo 19: (Kimmei) Amekuni Oshiharaki Hironiwa no Sumeramikoto.
  • Capitolo 20: (Bidatsu) Nunakakura no Futo Tamashiki no Sumeramikoto.
  • Capitolo 21:
    • (Yomei) Tachibana no Toyohi no Sumeramikoto.
    • (Sushun) Hatsusebe no Sumeramikoto.
  • Capitolo 22: (Suiko) Toyomike Kashikiya Hime no Sumeramikoto.
  • Capitolo 23: (Jomei) Okinaga Tarashi Hihironuka no Sumeramikoto.
  • Capitolo 24: (Kogyoku) Ame Toyotakara Ikashi Hitarashi no Hime no Sumeramikoto.
  • Capitolo 25: (Kotoku) Ame Yorozu Toyohi no Sumeramikoto.
  • Capitolo 26: (Saimei) Ame Toyotakara Ikashi Hitarashi no Hime no Sumeramikoto.
  • Capitolo 27: (Tenji) Ame Mikoto Hirakasuwake no Sumeramikoto.
  • Capitolo 28: (Temmu, primo capitolo) Ama no Nunakahara Oki no Mahito no Sumeramikoto, Kami no maki.
  • Capitolo 29: (Temmu, secondo capitolo) Ama no Nunakahara Oki no Mahito no Sumeramikoto, Shimo no maki.
  • Capitolo 30: (Jito) Takamanohara Hirono Hime no Sumeramikoto.

Processo di compilazione

Shoku Nihongi nota nel maggio del 720 che "先是一品舎人親王奉勅修日本紀。至是功成奏上。紀三十巻系図一巻". Tradotto significa che "A quel tempo il principe Toneri aveva compilato il Nihongi su ordine dell'imperatore, e lo aveva completato presentandogli 30 volumi di storia e un volume di genealogia". Quest'ultimo non è più esistente.

Contributi

Il processo di compilazione è solitamente studiato attraverso analisi statistiche di ogni capitolo. Sebbene scritto in cinese classico, alcune sezioni utilizzano uno stile tipicamente giapponese, mentre altre sembrano esser state scritte da autori di madrelingua cinese. Secondo gli studi più recenti, buona parte dei capitoli dopo il quattordicesimo (riguardante le cronache dell'Imperatore Yuryaku) furono scritti da nativi cinesi, eccetto il capitolo 22 e 23 (le cronache di Suiko e Jomei). Inoltre, visto che il capitolo 13 finisce con la frase "vedi i dettagli dell'incidente nella cronaca dell'imperatore Ōhastuse (Yūryaku)", riferendosi all'assassinio dell'imperatore Ankō, si suppone che questo capitolo fu scritto dopo la compilazione dei capitoli seguenti. Alcuni ipotizzano che il capitolo 14 fu il primo ad essere completato.

Fonti

Si dice che il Nihon Shoki si basi su documenti più antichi, in modo particolare sulle registrazioni che sono state continuamente tenute dalla corte Yamato sin dal sesto secolo. Esse includono documenti e folklore riportati dai clan che servivano la corte. Prima del Nihon Shoki, c'era il Tennoki (Annali degli Imperatori o anche Cronache degli Imperatori), e kokki (Cronache dello Stato) compilate dal principe Shōtoku e dallo statista Soga no Umako, ma poiché erano conservati negli archivi del clan Soga, andarono bruciati durante l'incidente di Itsushi, che pose fine all'egemonia di tale clan.

venerdì 9 febbraio 2018

Ares






Ares (in greco antico: Ἄρης, Árēs) nella religione greca è il figlio di Zeus ed Era. Viene molto spesso identificato tra i dodici Olimpi come il dio della guerra in senso generale, ma si tratta di un'imprecisione: in realtà Ares è il dio solo degli aspetti più violenti della guerra e della lotta intesa come sete di sangue. Ares era il dio più affascinante e bello tra gli dèi e per questo motivo faceva ingelosire Apollo,nonostante fosse suo "semifratello". Per i Greci, Ares era un dio del quale diffidare sempre. Il suo luogo di nascita e la sua vera residenza si trovavano in Tracia, ai limiti estremi della Grecia, paese abitato da genti barbare e bellicose; e proprio in Tracia Ares decise di ritirarsi dopo che venne scoperto a letto con Afrodite. Anche Atena è la dea della guerra ma il suo campo di azione è quello delle strategie di combattimento e dell'astuzia applicata alle battaglie, mentre Ares si diverte e si esalta per gli scoppi di furia e violenza, più graditi da Ares se improvvisi e subdoli, che in guerra si manifestano, delle atrocità connesse o no alla guerra (risse, barbarie, razzie…), non a caso Eris è sua sorella, gregaria e anche, in alcuni testi, una delle sue amanti. Fra i suoi animali sacri c'erano il cane, il cinghiale e l'avvoltoio.
La parola "Ares" fino all'epoca classica fu usata anche come aggettivo, intendendosi come infuriato o bellicoso, ad esempio si ricordano le forme Zeus Areios, Athena Areia, o anche Aphrodite Areia. Alcune iscrizioni risalenti all'epoca Micenea riportano Enyalios, un nome che è sopravvissuto fino all'epoca classica come epiteto di Ares.
Pur essendo protagonista nelle vicende belliche, raramente Ares risultava vincitore. Era più frequente, invece, che si ritirasse dalla contesa, come quando combatté a fianco di Ettore contro Diomede, o nella mischia degli Dei sotto le mura di Troia: in entrambi i casi si rifugiò sull'Olimpo perché messo in seria difficoltà, direttamente o indirettamente, da Atena. Altre volte la sua furia brutale si trovò contrapposta e vanificata da eroi o semidei, per esempio dalla lucida astuzia e dalla forza di Eracle, come nell'episodio dello scontro dell'eroe con suo figlio Cicno.
I Romani identificarono Ares con il dio Marte, che era un'antica divinità degli indoeuropei, la cui figura aveva però assunto in territorio italico caratteri diversi, essendo in origine una divinità "rurale" pacifica e benefica già all'epoca venerato di più rispetto ad Ares. Fu anche assunta dagli Etruschi col nome di Maris.

Il culto di Ares

Nonostante la sua figura sia importante per poeti e aedi, il culto di Ares non era molto diffuso nell'antica Grecia, tranne a Sparta dove veniva invocato perché concedesse il suo favore prima delle battaglie e, nonostante sia presente nelle leggende riguardanti la fondazione di Tebe, è uno degli dei sul conto del quale gli antichi miti meno si soffermano.
A Sparta era presente una statua di Ares che lo raffigurava incatenato, a simboleggiare che lo spirito della guerra e della vittoria non avrebbero mai potuto lasciare la città; durante le cerimonie in suo onore venivano sacrificati cani, usanza mutuata dall'antica pratica di sacrificare cuccioli alle divinità ctonie.
Ad Atene il tempio di Ares nell'agorà, che il geografo Pausania ebbe modo di vedere nel II secolo, era in realtà un tempio dedicato a Marte. L'Areopago, ovvero la collina di Ares sulla quale predicò Paolo di Tarso, si trova invece ad una certa distanza dall'Acropoli e nei tempi antichi vi si svolgevano i processi e la sua presunta relazione con Ares potrebbe essere solo frutto di un'errata interpretazione etimologica.

I simboli di Ares

Ares aveva una quadriga trainata da quattro cavalli immortali dal respiro infuocato, legati al carro con finimenti d'oro. Tra tutti gli dei si distingueva per la sua armatura bronzea e luccicante e in battaglia abitualmente brandiva una lancia. I suoi uccelli sacri erano il barbagianni, il picchio, il gufo reale e, specialmente nel sud della Grecia, l'avvoltoio. Secondo le Argonautiche gli uccelli di Ares, muovendosi come uno stormo e lasciando cadere piume appuntite come dardi, difendevano il suo tempio costruito dalle Amazzoni su di un'isola vicina alla costa del Mar Nero. Spesso Ares viene rappresentato su pietra con il colore rosso, rosso come il sangue, simbolo degli atti feroci che si compiono in guerra.

Gli epiteti di Ares

Enialio (Ενυαλιος, traslitterato anche come Enialo) ossia "Guerriero", era un epiteto comune per Ares. È interessante notare che nelle tavolette Micenee in scrittura lineare B si trova il nome di un dio chiamato Enialio, mentre "ares" pare essere semplicemente il sostantivo usato per chiamare la guerra. Tuttavia in epoca classica la figura di Enialio era stata declassata al rango di eroe (e in questa veste appare nell'Iliade) mentre Ares era assunto al rango di divinità. Enialio sopravvisse poi come un titolo di culto esclusivamente in alcuni ambiti.
Altri epiteti di Ares sono:
  • Brotoloigos (Βροτολοιγός, Il distruttore di uomini)
  • Andreiphontês (Ανδρειφοντης, L'assassino di uomini)
  • Miaiphonos (Μιαιφόνος, Colui che è macchiato di sangue)
  • Teikhesiplêtês (Τειχεσιπλήτης, Colui che assalta le mura)
  • Maleros (Μαλερός, Brutale)

Ares nella mitologia

La nascita

Ares era figlio del Re degli Dei Zeus e della Regina degli Dei Era. Le sue sorelle erano Ebe e Ilizia.
Stando a Omero e Quinto Smirneo, Ares aveva una sorella gemella: Eris.
Secondo un altro mito, riportato da Ovidio e dal Primo Mitografo Vaticano, Eris e Ares sono stati concepiti da Era semplicemente toccando un fiore, senza che la dea giacesse con Zeus.

Gli aiutanti di Ares

Dalla sua relazione con Afrodite nacquero due figli, Deimos e Fobos, che personificavano gli spiriti del terrore e della paura. Sorella e degna compagna del sanguinario Ares era Enio, dea degli spargimenti di sangue, Bia, la violenza e Cratos, la forza bruta. Solitamente Ares scendeva in guerra accompagnato da Cidoimo (il demone del frastuono della battaglia), dai Makhai (spiriti della battaglia), dagli Hysminai (gli spiriti dell'omicidio), da Polemos (uno spirito della guerra minore) e dalla figlia di Polemos Alalà, personificazione del grido di guerra dei Greci e il cui nome Ares decise di usare come proprio grido di guerra. Suo fedele soldato fu anche Alettrione.

La fondazione di Tebe

Uno dei miti più importanti riguardo ad Ares è quello che tratta del suo coinvolgimento nella fondazione della città di Tebe in Beozia. L'eroe Cadmo aveva ricevuto dall'Oracolo di Delfi l'ordine di seguire una vacca e fondare una città nel luogo dove si fosse fermata. L'animale si fermò presso una fonte custodita da un drago acquatico sacro ad Ares. Cadmo uccise il mostro e, su consiglio di Atena, ne seminò al suolo i denti: da questi nacquero istantaneamente dei guerrieri, gli Spartiati che aiutarono Cadmo a fondare quella che sarebbe appunto diventata Tebe. Cadmo, prima di diventarne il re dovette però servire Ares per otto anni per espiare l'affronto fattogli uccidendo il drago, nonché sposare la figlia del dio e di Afrodite, Armonia per appianare la discordia tra loro sorta.

Eracle e Cicno

Alcuni racconti parlano di un figlio di Ares che abitava in Macedonia, Cicno, che era così sanguinario da aver tentato di costruire un tempio dedicato al padre usando le ossa e i teschi dei viaggiatori da lui trucidati. Questo mostro venne a sua volta ucciso da Eracle: la morte del figlio suscitò l'ira di Ares che a sua volta si scontrò con il più grande degli eroi, finendone però ferito e sconfitto.

Il tradimento di Afrodite

Nella leggenda cantata dal bardo nel salone del palazzo di Alcinoo si narra che il dio del sole Helios una volta vide Ares e Afrodite che si incontravano di nascosto nella camera di Efesto e che andò subito a riferirglielo. Efesto studiò un sistema per sorprendere in flagrante la coppia e fabbricò una rete dorata con la quale legò i due amanti clandestini: aspettò e, durante un incontro amoroso, i due rimasero intrappolati nella rete e finirono così bloccati in una posizione assai intima e compromettente. Efesto, non ancora soddisfatto, chiamò gli altri dei dell'Olimpo per mostrare loro i due sfortunati amanti. Le dee per modestia si rifiutarono di andare, ma gli dei andarono senza indugio. Alcuni si abbandonarono a commenti sulla bellezza di Afrodite, altri osservarono che avrebbero volentieri preso il posto di Ares e, in buona sostanza, nessuno perse l'occasione di farsi beffe di loro. Una volta liberati Ares, imbarazzato e pieno di vergogna, se ne andò via tornando in Tracia, la sua terra natia.
Una versione della leggenda di epoca più tarda dice che Ares aveva messo di guardia alla porta il giovane Alectrione perché lo avvisasse dell'arrivo di Helios, dato che sapeva che se li avesse scoperti lo avrebbe rivelato ad Efesto, ma il giovane finì per addormentarsi. Ares, visto che Alectrione non aveva rispettato le consegne, si infuriò e per punirlo lo trasformò in un gallo, animale che da allora non dimentica mai al mattino di avvisare dell'arrivo del sole.

Ares rapito dagli Aloadi

Nell'Iliade la dea Dione riferisce alla figlia Afrodite che gli dei molto hanno sofferto a causa dei mortali e racconta del rapimento di Ares da parte di Oto ed Efialte.
Apollodoro ci racconta infatti che i due fratelli, semidei in quanto figli di Poseidone, ma detti Aloadi dal nome del secondo marito della loro madre Ifimedea, una volta dichiarata guerra all'Olimpo, decisero che per primo dovesse essere neutralizzato proprio Ares, e quindi si recarono in Tracia, dove rapirono il dio della guerra, lo incatenarono e lo misero in un vaso di bronzo dove restò imprigionato per tredici mesi, cioè un anno lunare.
E quella sarebbe stata la fine di Ares e dei suoi desideri di guerra se la bella Eribea, la matrigna dei due giganti, non avesse detto ad Hermes che cosa avevano fatto i due, spiega la dea alla figlia nel poema. Ares rimase chiuso nel vaso ad urlare e lamentarsi finché Ermes non andò a salvarlo mentre Artemide indusse nel contempo con un trucco Oto ed Efialte ad uccidersi l'un l'altro.

L'Iliade

Nell'Iliade Artemide mostra come in quella vicenda Ares non avesse stretto alleanze fisse con alcuno dei contendenti, e neppure mostrasse rispetto per Temi, la personificazione dell'ordine e della giustizia. Promise ad Atena ed Era di schierarsi dalla parte degli Achei, ma Afrodite fu abile a convincerlo a passare invece al fianco dei Troiani. Nel corso della guerra Diomede, mentre si stava scontrando con Ettore, vide Ares che combatteva nello schieramento troiano e ordinò così ai suoi uomini di ripiegare lentamente. Il dio guidò personalmente la mortale lama di Ettore contro numerosi guerrieri achei, uccidendo Teutrante, Oreste, Treco, Eleno, Enomao e Oresbio, mentre da solo massacrò il forte Perifante. Hera, la madre di Ares, si accorse di quest'inopportuna intromissione e chiese a Zeus il permesso di allontanare il figlio dal campo di battaglia. La dea esortò Diomede ad attaccare Ares, così l'eroe gli scagliò contro una lancia e il suo urlo di battaglia spaventò tanto i Troiani quanto gli Achei. Atena fece in modo che la lancia colpisse Ares, che urlando di dolore fuggì sull'Olimpo costringendo i Troiani a ritirarsi. Durante il contrattacco alle navi decide di scendere sulla terra per vendicare il proprio figlio affermando di non curarsi di ritorsioni da parte di Zeus, ma viene fermato da Atena che lo convince a restare dicendo che anche le altre divinità sarebbero state punite. Successivamente, quando Zeus permise agli dei di partecipare nuovamente alla guerra, Ares tentò di scontrarsi con Atena per vendicarsi della ferita precedentemente subita, ma fu nuovamente battuto e ferito quando la dea lo colpì scagliandogli contro un grosso masso.

Amanti e figli di Ares

  1. Afrodite - Dea della bellezza, figlia di Zeus e Dione
    1. Eros (secondo molte leggende)
    2. Anteros (Personificazione dell'amore non corrisposto)
    3. Deimos
    4. Phobos
    5. Armonia
    6. Adrestia (secondo alcuni miti è la dea della vendetta, compagna di battaglie del dio della guerra)
    7. Imeros (gemello di Eros e uno degli Eroti)
    8. Pothos (come il fratello Himeros rappresenta il desiderio d'amore sessuale)
    9. Priapo (secondo una leggenda)
    10. Athys (trovato vicino alle rive di un fiume quando era in fasce)
  2. Agraulo - Regina di Atene, amata da Ares e da Ermes
    1. Alcippe - Fanciulla violentata da Alirrozio, figlio di Poseidone
  3. Altea - Moglie di Oineo, re di Calidone
    1. Meleagro - Eroe della caccia di Calidone
  4. Arpina (o Sterope, secondo alcune leggende) - Ninfa, figlia del fiume Asopo
    1. Enomao - Re di Pisa, ucciso da Pelope (pare)
  5. Astinome - Sacerdotessa troiana
    1. Calidone - Eponimo della regione di Calidone
  6. Astioche - Figlia di Attore
    1. Ascalafo - Sovrano di Orcomeno, ucciso da Deifobo
    2. Ialmeno - Fondatore di una colonia sul Ponto Eusino
  7. Atalanta - Eroina cacciatrice
    1. Partenopeo - Uno dei Sette contro Tebe
  8. Bistonis - Ninfa della Tracia
    1. Tereo - Re di Tracia
  9. Calliope - Musa
    1. Eagro - Dio fluviale (secondo una leggenda)
  10. Critobule - Personaggio sconosciuto
    1. Pangeo - Eroe tracio
  11. Demodice - Moglie di Creteo
    1. Eveno - Re d'Etolia
    2. Testio - Re di Pleurone
  12. Dotide (o Crise) - Figlia dell'Almo
    1. Flegias - Eroe eponimo dei Flegei
  13. Eos - Dea dell'Aurora
  14. Filonome - Ninfa
    1. Licasto - Sovrano di Arcadia
    2. Parrasio - Gemello di Licasto
  15. Ossa - Ninfa di una montagna
    1. Sitone (secondo alcune leggende)
  16. Otrera - Regina e capostipite delle Amazzoni
    1. Ippolita - Uccisa dall'eroe Eracle
    2. Antiope - Rapita da Teseo e madre di Ippolito
    3. Melanippe - Uccisa da Telamone durante le fatiche di Eracle
    4. Lisippe (secondo alcune leggende)
    5. Pentesilea - Uccisa in duello da Achille
  17. Pelopia - Figlia del re Pelia
    1. Cicno - Crudele brigante
  18. Perimele - Principessa di Orcomeno
    1. Issione (secondo una leggenda)
  19. Cirene o Pirene - Ninfa (a volte identificata con la Cirene figlia del re dei Lapiti)
    1. Diomede - Re di Tracia, ucciso da Eracle (secondo alcune leggende)
    2. Licaone - Re macedone, ucciso da Eracle
  20. Protogenia - Figlia del re Calidone
    1. Ossilo - Pronipote di Eolo
  21. Teogone - Fanciulla di Licia
    1. Tmolo - Re di Lidia
  22. Triteia - Sacerdotessa di Atena
    1. Melanippo - Fondatore di Triteia
  23. Rea Silvia - Vestale, discendente del semidio Enea, figlio della dea dell'amore e della bellezza Afrodite / Venere
    1. Romolo e Remo - Fondatori di Roma
  24. Da madre sconosciuta
    1. Lico - Re di Libia
  25. Da madre sconosciuta
    1. Solimo (secondo una leggenda)
  26. Da madre sconosciuta
    1. Strimone - Re di Tracia, poi dio fluviale
  27. Da madre sconosciuta
    1. Tereo - Re di Tracia
    2. Driante - Fratello del precedente
  28. Da madre sconosciuta
    1. Trace - Capostipite tracio
  29. Da madre sconosciuta
    1. Patacao (secondo una leggenda)
    2. Euritione - Centauro




giovedì 8 febbraio 2018

Sutra del Loto






Il Sutra del Loto, o meglio Sutra del Loto della Buona Dottrina (Saddharmapuṇḍarīkasūtra), è uno dei testi più importanti nell'enorme corpus della letteratura del Buddhismo Mahāyāna contenuto nel Canone cinese (sezione del Fǎhuābù) e nel Canone tibetano (sezione mDo-sde del Kanjur). È inoltre il fondamento delle scuole buddhiste Tiāntái (in Cina), Tendai e Nichiren (in Giappone). Il Sutra del Loto è anche generalmente abbreviato in Fǎhuā Jīng (法華經) in cinese, Hokkekyō (法華経) in giapponese e Beophwagyeong (법화경) in coreano.

Il Sutra del Loto nelle diverse lingue

In sanscrito Saddharmapuṇḍarīka-sūtra (सद्धर्मपुण्डरीकसूत्र); cinese 妙法蓮華經, Miàofǎ Liánhuā Jīng; giapponese 妙法蓮華經, Myōhō Renge Kyō; coreano 묘법연화경, Myobeop Yeonhwa gyeong, tibetano དམ་ཆོས་པད་མ་དཀར་པོའི་མདོ, Dam-pa'i chos padma-dkar-po'i mdo, vietnamita Diệu pháp liên hoa kinh.

Storia

Secondo alcuni filologi il Sutra del Loto fu probabilmente composto nella sua forma definitiva tra il I e il II d.C. in Kashmir o forse nel Gandhāra o ancora nei pressi di Kāpīsā (odierna Begram in Afghanistan), territori allora inseriti nell'Impero Kushan. Alcune parti del testo sembrerebbero posteriori e potrebbero essere state aggiunte a più riprese fino al VI secolo in Cina. Altre parti, segnatamente i capitoli I, XIX,e XVII, sembrerebbero risultare più antichi, anche precedenti alla nostra era. Comunque sia, secondo alcuni recenti studi, sembrerebbe che il Sutra del Loto abbia subìto almeno quattro rimaneggiamenti, il nucleo originario dell'opera sarebbe quello in versi a cui sono stati aggiunti delle prose, poi ancora altri versi e infine le relative prose.
Per alcune tradizioni Mahāyāna il Sutra del Loto riporterebbe alcuni insegnamenti profondi del Buddha Śākyamuni trasmessi solo ad alcuni discepoli, e tale affermazione è presente nello stesso sutra. Secondo una leggenda, sempre Mahāyāna, i suoi contenuti, di un livello superiore rispetto agli Āgama-Nikāya delle scuole del Buddhismo dei Nikāya, non potevano essere compresi al tempo del Buddha Śākyamuni, perciò esso fu custodito per cinquecento anni nel regno dei Nāga, e quindi reintrodotto nel mondo di sahā (sanscrito, cinese 娑婆 suōpó, giapp. shaba), il nostro mondo, nei primi secoli della nostra era.
Alcuni indianisti rilevano che la composizione del Sutra del Loto muove da testi anteriori come il Mahābherihakaparivartāsūtra (Sutra della messa in moto della collana di gioielli del Gran Tamburo, tradotto da Guṇabhadra in lingua cinese con il titolo di 大法鼓經 Dàfǎgǔjīng, giapp. Daihōkokyō) oppure l'Avinivartanī-cakra-sūtra.

Composizione e Traduzione

Secondo uno dei traduttori in lingua occidentale, Burton Watson, il Sutra del Loto è stato inizialmente scritto in un dialetto del medio indiano, e poi tradotto in sanscrito sotto l'Impero Kushan per dargli maggiore dignità letteraria. Questo sutra è molto noto per essere focalizzato, tra l'altro, sui "mezzi abili" (sanscrito उपाय upāya, cinese 方便 pinyin fāngbiàn, coreano bangpyeon, giapponese hōben, tibetano thabs) principalmente in forma di parabole, e per essere il primo sutra ad utilizzare il termine Mahāyāna, o Grande Veicolo.
In Cina il Sutra del Loto fu tradotto diciassette volte, di cui sei in versione integrale. Di queste traduzioni ne sono giunte a noi solo tre, tutte inserite nella sezione Fǎhuābù del Canone cinese.
  • La prima risale al 290 ad opera di Dharmarakṣa (223-300) con il titolo Zhèng fǎhuā jīng (正法華經, giapp. Shō hokke kyō, T.D. 263, 9.63-133).
  • La seconda, la più diffusa in assoluto sia in Cina che in Giappone, è una traduzione in sette fascicoli di Kumārajīva (344-413) compiuta nel 406 con il titolo Miàofǎ Liánhuā Jīng (妙法蓮華經, giapp. Myōhō Renge Kyō, T.D. 262, 9.1c-62b).
  • La terza, che risulta parziale, fu compiuta nel 601 da Jñānagupta (闍那崛多, Shénàjuéduō, 523-605) e Dharmagupta (達摩笈多, Dámójíduō, ?-619) con il titolo Tiānpǐn miào fǎliánhuā jīng (添品妙法蓮華經, giapp. Tenbon myōhō renge kyō, T.D. 264). Quest'ultima traduzione in cinese si rifà a quella di Kumārajīva ma viene per l'appunto denominata Tiānpǐn (添品, capitolo aggiunto) in quanto presenta il capitolo Devadatta (XII capitolo) che, nella traduzione di Kumārajīva, è accorpato all'XI capitolo.
Secondo alcune antiche tradizioni del Buddhismo cinese e del Buddhismo giapponese, il Sutra del Loto avrebbe un prologo e un epilogo, cioè il Sutra dell'Infinito Significato (無量義經, pinyin: Wúliángyì jīng, giapp.: Muryōgi Kyō, T.D. 276, 9.383b-389b) e il Sutra della Meditazione del Bodhisattva Samantabhadra (觀普賢菩薩行法經, pinyin: Guān pǔxiánpúsà xíngfǎ jīng o anche Pǔxián jīng, giapp. Kan fugenbosatsu gyōhō kyō o anche Fugen Kyō, T.D. 277, 10.389-394). Questi tre sūtra costituiscono, in quell'ambito tradizionale, il 法華三部經 ( Fǎhuā sānbù jīng, g. Hokke sanbu kyō) ovvero le "Le tre scritture sorelle" (o il il "Triplice Sutra del Loto").
Alcune tarde versioni sanscrite del Sutra del Loto sono state rinvenute agli inizi dello scorso secolo a Gilgit (in Pakistan, è una versione del VI secolo), in Nepal (versione del XII secolo) e nel Tibet ma, secondo Francesco Sferra:
«c'è motivo di ritenere che l'originale su cui si basò Kumārajīva fosse in molti punti differente dal testo sanscrito a noi pervenuto. Sembra anzi che la traduzione cinese sia stata condotta su un testimone più antico di quelli a noi pervenuti nell'originale sanscrito come dimostrerebbero numerosi particolari e la differente suddivisione dei capitoli»
(In: Sutra del Loto. Milano, Rizzoli, 2001, pag. 17)
Sempre nell'area dell'Asia centrale è stata rinvenuta una versione più antica, riportata in khotanese, che risulta essere vicina alla versione originale tradotta in lingua cinese da Kumārajīva.
Il Sutra del Loto venne tradotto in tibetano nel IX secolo dal monaco indiano Surendra e dal monaco tibetano Yeshe De con il titolo Dam-pa'i chos padma-dkar-po'i mdo, tale traduzione, che concorda con le tarde versioni sanscrite dei manoscritti rinvenuti in Nepal, è inserita nel Canone tibetano.

Commentari sul Sutra del Loto

Tra i numerosi antichi commentari che autori mahāyāna hanno redatto sul Sutra del Loto, vanno ricordati:
  • Saddharmapuṇḍarīka-sūtra-upadeśa (妙法蓮華經憂波提舍 pinyin: Miào fǎ liánhuā jīng yōupōtíshè, giapp. Myōhō renge kyō ubadaisha, T.D. 1519 e 1520), opera di Vasubandhu (IV secolo d.C.), autore indiano di scuola Cittamātra, tradotta da Bodhiruci (?-527) e Tánlín (曇林,?-?).
  • Miàofǎliánhuājīng shū (妙法蓮華經疏, Commentario del Sutra del Loto) opera di Dàoshēng (道生, 355-434) discepolo cinese di Kumārajīva.
  • Miàofǎliánhuājīng wénjù (妙法蓮華經文句, anche Fǎhuā wénjù, Parole del Sutra del Loto, giapp. Myōhōrengekyō mongu, T.D. 1718) opera di Zhìyǐ (智顗, 538-597), autore cinese di scuola Tiāntái.
  • Miàofǎ liánhuā jīngxuán yì (妙法蓮華經玄義, anche Fǎhuā xuányì, Il profondo significato del Sutra del Loto della Legge meravigliosa, giapp. Myōhō renge kyōgen gi, T.D. 1716, 33.618-815) di Zhìyǐ.
  • Fǎhuā xuányì shìqiān (法華玄義釋籤, Commentario sul Fǎhuā xuányì di Zhìyǐ, giapp. Hokkegengi shakusen, T.D. 1717) opera di Zhànrán (湛然, 711-782), autore cinese di scuola Tiāntái.
  • Fǎhuā yóuyì (法華遊意, Riflessioni sul Sutra del Loto, giapp. Hōke yui) opera di Jízàng (吉藏, 549-623), autore cinese di scuola Sānlùn.

Dottrina

Esporre la dottrina veicolata dal Sutra del Loto è compito arduo. Fin dalla sua prima apparizione il Sutra del Loto ha svolto più funzioni. Nel corso dei secoli ha veicolato delle credenze importanti per le comunità buddhiste dell'Asia centrale e, soprattutto, dell'Estremo Oriente.
Nel Mahāprājñāpāramitôpadeśa (anche Mahāprajñāpāramitāśāstra), testo attribuito a Nāgārjuna (II-III secolo d.C.) e tradotto dal sanscrito al cinese da Kumārajīva nel V secolo d.C., si sostiene che tale sutra è superiore ai Prajñāpāramitā sūtra in quanto proclama che anche i seguaci dello Hīnayāna possono raggiungere l'anuttarā-samyak-saṃbodhi (la suprema bodhi). Alle medesime conclusioni giungono anche il Saddharmapuṇḍarīka-sūtra-upadeśa di Vasubandhu (IV secolo d.C.) e il Mahāyānāvatāra di Sāramati (IV secolo).
In Cina, è il sutra fondamentale della scuola Tiāntái (天台宗), dove lo stesso fondatore, Zhìyǐ (智顗, 538-597), ha prodotto al riguardo di questo sutra più opere esegetiche. In Giappone, riveste questo ruolo nelle scuole del Buddhismo Tendai e del Buddhismo Nichiren. Lo stesso Dōgen Zenji (道元禅師, 1200-1253), fondatore giapponese della scuola Zen Sōtō (曹洞宗 Sōtō-shū) ebbe a dichiarare nella sua opera fondamentale, lo Shōbōgenzō:
«Il Sutra del Loto è il re dei sutra: riconoscetelo come il vostro grande maestro. Comparato a questo sutra tutti gli altri si pongono soltanto come suoi contenuti, perché esso soltanto esprime la Verità ultima. Gli altri presentano soltanto insegnamenti provvisori, non le vere intenzioni del Buddha.»
(Dōgen, Shōbōgenzō)
Lo stesso monaco Zen italiano e fondatore del monastero Fuden-ji, Fausto Taiten Guareschi affermò, alcuni anni fa, che:
«Lo Shōbōgenzō sembra un commento al Sutra del Loto»
(Fausto Taiten Guareschi)
Gli studiosi contemporanei si sono prodigati in molteplici analisi testuali per spiegare il grande successo rivestito in Oriente da questo sutra. Gene Reeves rileva come, a differenza dei trattati dottrinali, le 'storie' rappresentate nel Sutra del Loto
«incarnano gli insegnamenti e, per così dire, danno umanità ad essi in un modo in cui i principi astratti non possono fare. Se si intende comprendere questo Sutra completamente, occorre studiare attentamente le sue storie. Così diverrà possibile vedere che l'uso esteso delle storie è una sorta di affermazione del concreto. Le storie – sembra voler dire il Sutra – sono importanti incarnazioni del Dharma tanto quanto ogni affermazione astratta. Esse raccontano di azioni che danno corpo al Dharma. È in tali azioni, che in questo Sutra sono considerate pratiche bodhisattviche, che il Dharma è più concretamente incarnato e pertanto più prezioso e più reale»
(Gene Reeves Il Sutra del Loto come radicale affermazione del mondo)
E, ancora più avanti, sempre Reeves:
«L'intera ambientazione del Sutra del Loto è sovrannaturale; in esso, dal primo capitolo all'ultimo, non c'è nulla che pretenda di essere storico. Ma, mentre in altri contesti le storie miracolose possono essere state usate per affermare in questo mondo qualche potere extramondano, la loro funzione nel Sutra del Loto è piuttosto diversa. Ciò è in parte dovuto, io ritengo, al fatto che l'intera ambientazione del Sutra è sovrannaturale. Nella Bibbia, per esempio, i miracoli hanno luogo nella Storia, essi compaiono all'interno di un resoconto storico. Ma nel Sutra del Loto, sebbene ci siano brevi riferimenti agli eventi storici, il lettore comprende fin dall'inizio che i miracoli hanno luogo all'interno di un racconto. E tali racconti sono degli espedienti, degli abili mezzi, per impartire insegnamenti. Non hanno la pretesa di essere dei resoconti storici»
Quindi il Sutra del Loto sarebbe un compendio di insegnamenti espresso per mezzo di storie fantastiche tese non solo a comunicare una serie di dottrine, quanto piuttosto a 'rivelare' al lettore una diversa interpretazione del mondo. È evidente che nel Sutra del Loto ci siano dei continui richiami polemici contro le scuole dello Śrāvakayāna (o Hinayāna) ma è altrettanto evidente che, a differenza di altri sutra Mahāyāna successivi, secondo questo sutra anche gli śrāvaka (聲聞 cin. shēngwèn, giapp. shōmon) e i pratyekabuddha (緣覺 cin. yuánjué, giapp. engaku), ovvero i seguaci del Buddhismo dei Nikāya, raggiungeranno il pieno "risveglio" (anuttarā-samyak-saṃbodhi, cinese 無上菩提 wúshàng pútí, giapponese mujō bodai), la piena "buddhità", in quanto stanno già operando come dei Buddha. Ciò avviene per una concezione radicalmente olistica (olismo) e omnicentrica della realtà richiamata costantemente in tutto il Sutra.
Tradizionalmente sono due i capitoli considerati centrali in questo sutra: il capitolo II, l'Upāyakauśalya, e il capitolo XVI (XV nella versione sanscrita) il Tathāgatasupramana, che peraltro risultano tra le parti più antiche dello stesso sutra.
Nel capitolo II, il Buddha Śākyamuni dichiara a Śāriputra che la profonda dottrina dei Buddha può essere compresa solo dai Buddha. Che per insegnare tale dottrina i Buddha si avvalgono quindi di mezzi abili (upāya) e che tali mezzi si esplicitano in più vie di salvezza (che comprendono quelle degli śrāvaka, dei pratyekabuddha e dei bodhisattva), ma che la via rimane sempre una ed è il Buddhaekayāna (il veicolo unico del Buddha). Dietro l'insistenza di Śāriputra il Buddha espone il Dharma descrivendo semplicemente la realtà per come essa è (attraverso le sue dieci 'talità', sans. tathātā). La via da percorrere, la via dei Buddha, per il II capitolo del Sutra del Loto non offre quindi verità segrete ma la realtà semplicemente come essa è e che va accettata e compresa durante la propria vita, senza ricorrere ad opinioni (sanscrito dṛṣṭi,) peraltro già criticate dal Buddha Śākyamuni negli Āgama-Nikāya. Secondo le scuole sino-giapponesi che fanno riferimento a questo Sutra, ciò significa imparare ad incrociare la propria esistenza (Realtà convenzionale di essere sofferente) con la Realtà assoluta (che di per sé contiene ogni cosa, compresa la sofferenza, ed è per questo inesprimibile). Solo per mezzo di questo incontro, che si realizza con le pratiche meditative (lo zhǐguān/shikan, 止觀, delle scuole Tiāntái e Tendai) o la recitazione del daimoku (il Nam myōhō renge kyō, 南無妙法蓮華経, per il Buddhismo Nichiren), si può raggiungere la "Verità ultima" la quale, essendo "ultima", deve necessariamente comprendere sia la "Verità assoluta" che quella "convenzionale" (individuale e mondana).
Nel capitolo XVI il Buddha Śākyamuni dichiara che egli non è soggetto a morte ma, come Tathāgata (manifestazione del Buddha), è sempre esistito e sempre esisterà. Questo insegnamento sul Buddha eterno è un richiamo all'olismo radicale proprio del Buddhismo Mahāyāna, dove la soggettività (propria della "Verità convenzionale") acquisisce un diverso significato quando incontra l'insegnamento della vacuità (śunyātā, proprio della "Verità assoluta"). Tutti gli esseri hanno la natura di Buddha (buddha-dhātu o buddhatā o tathāgatagarbha) e operano per "realizzare" questa natura, e tutti la "realizzeranno" (capitolo XX del Sutra del Loto). Il Buddha è quindi sempre esistito e sempre esisterà.
In conclusione, secondo Gene Reeves:
«Ciò che si trova nel Sutra del Loto, dunque, è una sorta di modello cosmologico/soteriologico dove le storie sovrannaturali dànno rilievo al Sutra del Loto stesso, a Buddha Śākyamuni, e al mondo saha, al fine di incoraggiare la pratica del bodhisattva nel mondo, che costituisce la Via del Buddha per la salvezza. Portando il cosmo e ogni sorta di elementi sovrannaturali nella storia si dà rilievo al rango del Sutra. La predica di cui si narra nel Sutra è frequentata non soltanto dagli esseri umani ma da ogni sorta di esseri provenienti da infiniti mondi. Questa elevazione del rango del Sutra, di contro, dà rilievo a Buddha Śākyamuni, in quanto è colui che predica il Sutra. In tutto il testo, i buddha e i bodhisattva vengono in questo mondo per chiedere a Buddha Śākyamuni di predicare il Sutra del Loto, che qui equivale al Dharma. E, poiché Buddha Śākyamuni è il buddha del mondo saha, anche il rango di quest'ultimo si innalza. È nel mondo saha che i buddha e i bodhisattva degli altri mondi e degli altri tempi vengono a lodare Śākyamuni. E ciò, naturalmente, eleva il rango e l'importanza di coloro che vivono nel mondo saha – specialmente coloro che seguono gli insegnamenti di Buddha Śākyamuni, che si assumono la responsabilità della loro vita e diventano praticanti della Via del bodhisattva, entrando così nella Via del Buddha che porta alla salvezza. Viene detto, in effetti, che la vita di noi che viviamo nel mondo saha ha un significato cosmico, per incoraggiarci così a perseguire la nostra salvezza, la nostra buddhità, praticando la Via del bodhisattva e aiutando gli altri.
Pertanto, per il Sutra del Loto, l'intera struttura cosmica, più grande di quanto possiamo immaginare, è legata a noi e, in un certo senso, dipende dalle nostre scelte quotidiane, come noi dipendiamo da essa. In questo, come in altri modi, il Sutra del Loto afferma radicalmente il mondo. Ma, ben lungi dal vedere questo mondo come già perfetto in qualche mistico modo o dall'accettarlo così come è, esso considera il mondo, con tutta la sua sofferenza, come reale e quindi come un luogo di pratica bodhisattvica.»

Struttura del Sutra

Il Sutra del Loto comprende ventisette capitoli nelle versioni sanscrite e tibetane, che diventano ventotto nella versione cinese di Kumārajīva riveduta da Jñānagupta e Dharmagupta.



La suddivisione del Sutra del Loto nella tradizione del Canone buddhista cinese

Nella tradizione del Buddhismo che fa riferimento al Canone buddhista cinese, ovvero nelle scuole buddhiste cinesi, coreane, giapponesi e vietnamite, questo sutra viene diviso in due parti:
  • la prima, denominata in cinese 迹門 jī mén, in coreano 적문 jeok mun o chŏk mun, in giapponese shaku mon, in vietnamita tích môn, riguarda i primi 14 capitoli del sutra dove il Buddha Śākyamuni si esprime nella sua forma apparente, vincolato ai limiti spaziali e temporali;
  • la seconda, denominata in cinese 本門 běnmén, in coreano 본문 bommun o pommun, in giapponese honmon, in vietnamita bổn môn, riguarda i secondi 14 capitoli del sutra, dove il Buddha Śākyamuni si rivela invece come espressione del Buddha eterno (o Buddha originario), ovvero esprime la sua natura originaria al di là del tempo e dello spazio.



  • 迹門
    1. 序品
    2. 方便品
    3. 譬喩品
    4. 信解品
    5. 薬草喩品
    6. 授記品
    7. 化城喩品
    8. 五百弟子受記品
    9. 授学無学人記品
    10. 法師品
    11. 見宝塔品
    12. 提婆達多品
    13. 勧持品
    14. 安楽行品
  • 本門
    1. 従地湧出品
    2. 如来寿量品
    3. 分別功徳品
    4. 随喜功徳品
    5. 法師功徳品
    6. 常不軽菩薩品
    7. 如来神力品
    8. 嘱累品
    9. 薬王菩薩本事品
    10. 妙音菩薩品
    11. 観世音菩薩普門品
    12. 陀羅尼品
    13. 妙荘厳王本事品
    14. 普賢菩薩勧発品

A queste due parti, il monaco buddhista giapponese del XIII secolo, fondatore dell'omonima scuola, Nichiren, aggiunse una terza composta a partire dal X capitolo fino al XXII capitolo compresi denominandola daisan hōmon (terza sfera dell'insegnamento di Śākyamuni) dove, a detta di Nichiren, si conservano gli insegnamenti per resistere alle prove della vita praticando la vera Dottrina.

L'ordine dei ventisette capitoli nella versione in lingua sanscrita

  1. nidānaparivartaḥ
  2. upāyakauśalyaparivartaḥ
  3. aupamyaparivartaḥ
  4. adhimuktiparivartaḥ
  5. oṣadhīparivartaḥ
  6. vyākaraṇaparivartaḥ
  7. pūrvayogaparivartaḥ
  8. pañcabhikṣuśatavyākaraṇaparivartaḥ
  9. ānandādivyākaraṇaparivartaḥ
  10. dharmabhāṇakaparivartaḥ
  11. stūpasaṁdarśanaparivartaḥ
  12. utsāhaparivartaḥ
  13. sukhavihāraparivartaḥ
  14. bodhisattvapṛthivīvirasamudgamaparivartaḥ
  15. tathāgatāyuṣpramāṇaparivartaḥ
  16. puṇyaparyāyaparivartaḥ
  17. anumodanāpuṇyanirdeśaparivartaḥ
  18. dharmabhāṇakānuśaṁsāparivartaḥ
  19. sadāparibhūtaparivartaḥ
  20. tathāgataddharyabhisaṁskāraparivartaḥ
  21. dhāraṇīparivartaḥ
  22. bhaiṣajyarājapūrvayogaparivartaḥ
  23. gadgadasvaraparivartaḥ
  24. samantamukhaparivartaḥ
  25. śubhavyūharājapūrvayogaparivartaḥ
  26. samantabhadrotsāhanaparivartaḥ
  27. anuparīndanāparivartaḥ