lunedì 2 giugno 2025

“Natural o dopati? Il corpo perfetto sui social tra mito, marketing e sostanze anabolizzanti”

Nel panorama iperfiltrato dei social media, i corpi che vediamo ogni giorno scorrono tra scroll distratti e sguardi ammirati: muscoli scolpiti, percentuali di grasso corporeo minime, addomi cesellati, schiene larghe e spalle ipertrofiche. Ma sono davvero il frutto di dieta, disciplina e genetica? Oppure, dietro molti di questi fisici, si nasconde un uso sistematico di sostanze dopanti?

Un caso emblematico è quello di Brian Johnson, noto come “Liver King”, influencer americano divenuto celebre per il suo stile di vita “ancestrale”: allenamenti all’aperto, vita primitiva, dieta iperproteica a base di carne rossa cruda, e soprattutto organi animali come il fegato, da cui il soprannome. Per anni, Johnson ha sostenuto che il suo corpo incredibilmente muscoloso fosse frutto esclusivo della “ancestral tenet”, la sua filosofia basata su nove principi ispirati alla vita dei nostri antenati paleolitici.

Ma la realtà si è rivelata ben diversa. In una inchiesta giornalistica trapelata nel 2022, e successivamente confermata dallo stesso Johnson, è emerso che l’influencer spendeva oltre 11.000 dollari al mese in ormoni della crescita e steroidi anabolizzanti, con protocolli dettagliati degni di un laboratorio farmacologico. Una rivelazione che ha scosso i suoi milioni di follower, ma che non ha sorpreso chi da anni osserva il mondo del fitness con occhio critico.

Il caso di Liver King non è isolato. Anzi, rappresenta la punta dell’iceberg. L’universo dei social è popolato da atleti, bodybuilder, influencer e “coach” che promuovono piani alimentari, routine di allenamento e stili di vita apparentemente in grado di costruire corpi sovrumani. Ma ciò che spesso non viene detto, e talvolta deliberatamente nascosto, è l’uso diffuso di farmaci dopanti: testosterone esogeno, ormone della crescita, insulina, SARMs (modulatori selettivi dei recettori androgeni), anabolizzanti di nuova generazione.

Molti di questi individui si dichiarano “natural”, ovvero non assistiti da sostanze, ma mantengono questa narrazione per ragioni commerciali. È più semplice vendere un programma di allenamento o un integratore se si lascia intendere che è stato il solo responsabile della trasformazione fisica. In realtà, un corpo da bodybuilding competitivo è praticamente irraggiungibile naturalmente, salvo rarissime eccezioni genetiche.

Nel linguaggio del fitness, essere “natural” significa non fare uso di sostanze proibite o di farmaci anabolizzanti, nemmeno in microdosi. Tuttavia, questa definizione è facilmente elusa. Alcuni atleti, ad esempio, fanno uso di sostanze durante l’anno e poi si “puliscono” per risultare negativi ai test nelle competizioni. Altri usano sostanze non ancora tracciabili o vietate, i cosiddetti “grey area drugs”, come certi SARMs o pro-ormoni.

Nel mondo degli influencer, però, non ci sono test antidoping. Non c’è federazione che imponga controlli. Non c’è nemmeno un obbligo di trasparenza, se non quello morale verso il proprio pubblico. Ed è qui che la linea si fa più sottile: l’etica viene sacrificata in nome dell’engagement e del profitto.

L’uso dei social media è oggi associato a un aumento dell’insoddisfazione corporea, soprattutto tra adolescenti e giovani adulti. I modelli promossi — sempre più estremi, sempre più innaturali — sono spesso spacciati per “realistici”, “raggiungibili”, “alla portata di tutti”. Ma non lo sono. Il problema non è solo estetico, ma psicologico.

Molti ragazzi iniziano a dubitare di sé stessi, a sentirsi inadeguati, a colpevolizzarsi per non riuscire ad ottenere “quel fisico”, pur seguendo diete e allenamenti. Alcuni finiscono per intraprendere percorsi dopanti in autonomia, comprando sostanze nel mercato nero, spesso senza alcuna supervisione medica. Gli effetti collaterali? Da squilibri ormonali e infertilità fino a danni cardiovascolari e psichiatrici gravi.

Una convinzione comune è che il doping sia riservato agli atleti d’élite, ma oggi la realtà è ben diversa. I motivi per cui si ricorre agli anabolizzanti non sono più (solo) sportivi: oggi ci si dopa per apparire, per piacere, per diventare virali. I social sono diventati una palestra globale, dove l’estetica viene premiata in like, sponsorizzazioni, collaborazioni e successo economico.

Nel caso di Liver King, il fisico “ancestrale” era un brand. Un prodotto di marketing, supportato da integratori venduti a caro prezzo e da un’immagine volutamente esagerata. Ma il danno che ha provocato è tangibile: ha diffuso un ideale di mascolinità tossica e irrealistica, spingendo migliaia di ragazzi a emularlo in nome della virilità “primitiva”.

Occorre oggi una nuova alfabetizzazione mediatica e culturale. Serve insegnare a distinguere tra risultati ottenibili naturalmente e fisici costruiti chimicamente. Serve più trasparenza, ma anche più spirito critico da parte di chi consuma questi contenuti. Non tutto ciò che brilla su Instagram è frutto di forza di volontà: spesso, è solo il risultato di una siringa ben nascosta.

Anche nel mondo del fitness ci sono atleti naturali, professionisti seri, coach preparati e trasparenti. Ma è necessario imparare a riconoscerli. Un fisico scolpito non è in sé una menzogna; lo diventa quando si nasconde la verità dietro la sua costruzione.

E Liver King ne è solo un esempio. Da “natural ancestrale” a testimonial involontario della cultura del doping travestito da benessere.

In un mondo che premia l’apparenza più della sostanza, è diventato urgente ridare valore alla verità biologica del corpo umano. Un corpo forte, sano, allenato — anche con i suoi limiti genetici — è infinitamente più prezioso di uno costruito chimicamente e spacciato come “naturale”. Serve riscrivere il concetto di forza: non come massa, ma come consapevolezza. Non come performance estetica, ma come coerenza tra ciò che si è e ciò che si mostra.



domenica 1 giugno 2025

Taekwondo, Boxe e BJJ: una combinazione micidiale, ma non invincibile

Nel mondo sempre più ibrido delle arti marziali miste, la domanda non è più se una singola disciplina possa prevalere, ma quale combinazione di tecniche risulti più efficace in un contesto di combattimento totale. In questo senso, l’unione di Taekwondo, Boxe e Brazilian Jiu-Jitsu (BJJ) rappresenta una delle configurazioni più affilate ed esplosive, sulla carta e nella gabbia.

Ciascuna di queste discipline eccelle in un’area distinta del combattimento:

  • Taekwondo offre un arsenale di calci rapidi, acrobatici e imprevedibili, con un focus sull’agilità, il tempismo e l’esplosività. È particolarmente utile nella lunga distanza e nella creazione di angoli inusuali d’attacco.

  • Boxe aggiunge potenza, precisione e una struttura difensiva superiore nel gioco di mani. Offre inoltre una gestione dello spazio in corto raggio che il Taekwondo non contempla.

  • Brazilian Jiu-Jitsu, infine, domina la lotta a terra: sottomissioni, transizioni e controllo posizionale. Una cintura nera in BJJ è in grado di terminare un incontro da sotto, da sopra, o da qualsiasi posizione intermedia.

Combinati, questi stili coprono virtualmente ogni scenario: distanza lunga (Taekwondo), media e corta (Boxe), e a terra (BJJ). Ma come sempre, la teoria deve essere messa alla prova sul campo. E l’MMA, per sua natura, è la cartina tornasole definitiva.

Se esiste un esempio vivente di questa triade, è Anthony “Showtime” Pettis, ex campione dei pesi leggeri WEC e UFC. Cintura nera terzo dan di Taekwondo e cintura nera di Jiu-Jitsu brasiliano, Pettis ha affinato il suo striking con solide basi pugilistiche, creando uno stile spettacolare e, per un certo periodo, dominante.

Il suo celebre “Showtime Kick” contro Benson Henderson — un calcio alla testa in salto, spingendosi con i piedi sulla gabbia — resta uno dei momenti più iconici nella storia delle MMA. Ma Pettis non è stato solo un artista dello striking: ha finalizzato lo stesso Henderson con una leva al braccio, dimostrando che anche il suo grappling era di livello mondiale.

La sua carriera dimostra l’efficacia di questa combinazione. Pettis riusciva a colpire da ogni angolazione, gestire il ritmo con una boxe solida e, se portato a terra, trasformare una situazione difensiva in una vittoria.

Eppure, nemmeno Pettis è rimasto imbattuto. Diversi lottatori — soprattutto quelli con forti basi di wrestling americano, pressione costante e una buona difesa alle sottomissioni — sono riusciti a neutralizzarlo. Combattenti come Rafael dos Anjos e Clay Guida hanno esposto una debolezza strutturale: la difficoltà nel gestire avversari che non danno spazio, che annullano il gioco in piedi e impongono un ritmo incessante.

In altre parole, la triade Taekwondo–Boxe–BJJ è potente, ma non infallibile. Manca un elemento fondamentale: la lotta di controllo (wrestling), essenziale per dettare dove si combatte e quando. Senza la capacità di evitare o imporre un takedown, anche il miglior striking o il miglior jiu-jitsu possono essere vanificati.

La combinazione di Taekwondo, Boxe e BJJ funziona — e funziona bene. È letale contro avversari meno completi, spettacolare per il pubblico e tecnicamente soddisfacente per i puristi. Ma in uno sport dove la preparazione si fa sempre più specifica e le strategie si adattano a ogni stile, la versatilità è tanto importante quanto la specializzazione.

Pettis è stato una stella luminosa proprio perché ha saputo integrare queste tre dimensioni in un’identità unica. Ma anche lui ha trovato i suoi limiti contro avversari con approcci meno spettacolari ma più efficaci nel neutralizzare.

In ultima analisi, Taekwondo, Boxe e BJJ sono una base straordinaria. Aggiungervi un solido wrestling e una mentalità strategica può fare la differenza tra essere un combattente spettacolare... e diventare una leggenda.