Kamikaze (神風)
è una parola giapponese, di solito tradotta come vento divino
(kami significa "divinità" — un termine
fondamentale nello shintoismo — e ka-ze sta per "vento";
ka inspirare e ze espirare). Internazionalmente e in
generale è riferita agli attacchi suicidi eseguiti dai piloti
giapponesi (su aerei carichi di esplosivo) contro le navi alleate
verso la fine della campagna del pacifico nella seconda guerra
mondiale. Il termine è mutuato dal nome di un leggendario tifone che
si dice abbia salvato il Giappone da una flotta di invasione mongola
inviata da Kublai Khan nel 1281. In Giappone la parola "kamikaze"
viene riferita a questo tifone.
Gli attacchi aerei furono l'aspetto
predominante e meglio conosciuto di un uso più ampio di attacchi —
o piani — suicidi da parte di personale giapponese, inclusi soldati
che indossavano esplosivo ed equipaggi di navi cariche di bombe. In
giapponese il termine usato per le unità che eseguivano questi
attacchi è tokubetsu kōgeki tai (特別攻撃隊,
letteralmente "unità d'attacco speciale"), solitamente
abbreviato in tokkōtai (特攻隊).
Nella seconda guerra mondiale le squadre suicide provenienti dalla
Marina imperiale giapponese furono chiamate shinpū tokubetsu
kōgeki tai (神風特別攻撃隊),
dove shinpū è la lettura-on (cinese) dei kanji che formano
la parola "kamikaze"; le formazioni kamikaze delle forze
aeree dell'Esercito imperiale giapponese erano invece denominata
unità Shinbu (神武).
Dalla fine della seconda guerra
mondiale, la parola kamikaze è stata applicata a una varietà più
ampia di attacchi suicidi, in altre parti del mondo ed in altre
epoche. Esempi di questi includono Selbstopfer nella Germania
nazista durante la seconda guerra mondiale ed attentati suicidi di
natura terroristica e militare. L'uso internazionale corrente del
termine kamikaze per identificare attentati suicidi di natura
terroristica - o di qualsiasi altra natura - non viene adottato dalla
stampa nipponica, che invece gli preferisce jibaku tero
(自爆テロ), abbreviazione
della locuzione anglo-giapponese jibaku terorisuto (自爆テロリスト,
"terroristi autoesplodenti").
Seconda
guerra mondiale
Situazione
Le forze giapponesi, dopo la loro
sconfitta nel 1942 alla battaglia delle Midway avevano perso
l'iniziativa che avevano dal principio della guerra scoppiata nel
Pacifico a dicembre 1941 (conosciuta ufficialmente in Giappone come
"Grande Guerra dell'Asia Orientale"). Nel 1943-44 le forze
alleate, sostenute dalla potenza industriale e dalle risorse naturali
degli Stati Uniti d'America stavano avanzando costantemente verso il
Giappone.
I caccia giapponesi erano ormai messi
in minoranza e surclassati dai nuovi caccia USA, particolarmente
l'F4U Corsair e il Grumman F6F Hellcat e, a causa delle perdite in
combattimento, i piloti di caccia abili stavano diventando sempre più
rari. Infine la scarsezza di parti di ricambio e di carburante
rendevano problematiche anche le normali operazioni di volo.
Il 15 luglio 1944, l'importante base
giapponese di Saipan venne occupata dalle forze alleate. Ciò rese
possibile l'uso dei bombardieri a lungo raggio B-29 Superfortress per
colpire direttamente il Giappone. Dopo la caduta di Saipan l'alto
comando giapponese predisse che il prossimo obiettivo degli alleati
sarebbero state le Filippine, strategicamente importanti per la loro
posizione tra il Giappone ed i campi petroliferi del sud est
asiatico.
Questa predizione si avverò il 17
ottobre 1944 quando le forze alleate assaltarono l'isola di Suluan
iniziando la battaglia del Golfo di Leyte. Alla 1ª Flotta Aerea
della Marina imperiale giapponese con base a Manila venne assegnato
l'incarico di assistere le navi giapponesi che avrebbero tentato di
distruggere le forze alleate nel golfo di Leyte. La 1ª Flotta aerea
disponeva di soli 40 aerei: 34 Mitsubishi A6M imbarcati su portaerei
e 3 aerosiluranti Nakajima B6N Tenzan, 1 Mitsubishi G4M, 2
bombardieri Yokosuka P1Y Ginga e un aeroplano da ricognizione. Il
compito che dovevano affrontare le forze giapponesi pareva totalmente
impossibile. Il comandante della Prima Forza Aerea, il viceammiraglio
Takijirō Ōnishi decise di formare una "Forza d'Attacco
Speciale Kamikaze"; Onishi divenne il "padre dei kamikaze".
In un incontro all'aeroporto di Mabacalat (Clark Air Base) vicino a
Manila, Onishi che stava visitando i quartieri del 201º Corpo Navale
di Volo suggerì: «Non penso che ci sia un'altra maniera di eseguire
l'operazione che mettere una bomba da 250 kg su uno Zero e farlo
sbattere contro una portaerei per metterla fuori combattimento per
una settimana.»
La prima unità kamikaze
Il comandante Asaiki Tamai chiese a un
gruppo di abili studenti di volo che aveva personalmente addestrato
di unirsi alla forza di attacco speciale. Tutti i piloti alzarono
entrambe le mani, dando pertanto l'assenso a unirsi all'operazione.
Più tardi Asaiki Tamai chiese al tenente Yukio Seki di comandare la
forza di attacco speciale.
Si dice che Seki Yukio abbia chiuso gli
occhi ed abbassato la testa per dieci secondi prima di chiedere: «La
prego di lasciarmelo fare».
Yukio Seki divenne pertanto il 24°
pilota kamikaze ad essere scelto.
Dunque, il 20 ottobre 1944 è la data
di nascita del reparto kamikaze, formato da 24 piloti del 21º
Stormo:
Questi nomi furono tratti da un poema
patriottico (waka o tanka) dello studioso giapponese classico Motoori
Norinaga, scritta nel XVIII secolo:
Shikishima no
Yamatogokoro wo
Hito
towaba
Asahi ni niou
Yama-zakura bana
(in italiano: Se mi chiedete cos'è
l'anima della razza giapponese della bella isola, rispondo che è
come fiore di ciliegio selvatico ai primi raggi del sol levante,
puro, chiaro e deliziosamente profumato.)
I primi attacchi
Almeno una fonte cita un episodio di
aeroplani giapponesi scontratisi con la portaerei USS Indiana
e l'incrociatore leggero USS Reno a metà del 1944,
considerandoli come i primi attacchi kamikaze della seconda guerra
mondiale, ma le prove che questi scontri fossero intenzionali e non
collisioni accidentali, possibili durante intense battaglie
aeronavali, sono scarse.
Secondo le testimonianze del personale
alleato, il primo attacco kamikaze — nel senso generalmente
accettato del termine — non venne eseguito dall'unità di Tamai, ma
da un pilota giapponese non identificato. Il 21 ottobre 1944
l'ammiraglia della Marina Reale Australiana, venne colpita da un
aeroplano giapponese armato con una bomba da 200 kg (441 libbre),
dopo che il pilota giapponese aveva tentato di attaccare l'altro
incrociatore australiano HMAS Shropshire che navigava a poca
distanza; l'aereo era stato danneggiato seriamente dal fuoco
antiaereo della Shropshire e se ne allontanò a bassissima
quota (50 piedi, meno di 20 metri) in direzione della Australia.
Le mitragliere a 8 canne di tipo pom-pom, due cannoni Bofors
da 40mm e due da 20mm della nave cercarono di impegnare l'aereo senza
risultato ma probabilmente disturbando il pilota, e questo colpì
l'albero anteriore, sopra il ponte di comando; vennero danneggiati il
ponte di comando che era scoperto come in genere nelle navi
britanniche dell'epoca, la centrale di controllo del tiro antiaereo e
la piattaforma della girobussola, spargendo carburante e detriti su
una vasta area. La bomba non esplose, altrimenti la detonazione
avrebbe potuto effettivamente distruggere la nave. Nell'attacco
morirono almeno 30 membri dell'equipaggio incluso l'ufficiale
comandante, il capitano Emile Dechaineux, e la maggior parte del
personale del ponte rendendo la nave di fatto inoperativa; tra i
feriti ci fu il commodoro John Collins, comandante della forza
australiana. Alcuni ritengono che l'attacco fosse suicida senza alcun
dubbio ma non frutto di una tattica preordinata, come altri episodi
verificatisi fin dal 1942.
Il 25 ottobre l'Australia venne
colpito nuovamente e forzato a ritirarsi nelle Nuove Ebridi per le
riparazioni. Quello stesso giorno cinque caccia Zero condotti da Seki
attaccarono una portaerei di scorta: la USS St. Lo. Sebbene
solo un kamikaze riuscì a colpirla con efficacia, la bomba a bordo
dell'aereo causò un incendio che fece esplodere il deposito bombe,
affondando la portaerei. Altri colpirono e danneggiarono altre navi
alleate, tra cui le portaerei di scorta USS Santee, USS
Suwannee, USS Kitkun Bay e USS Kalinin Bay.
Poiché molte portaerei americane avevano ponti di volo in legno,
furono considerate più vulnerabili agli attacchi kamikaze rispetto
alle portaerei britanniche della Flotta Britannica del Pacifico,
dotate di ponti in acciaio.
L'Australia ritornò nella zona
di combattimento nel gennaio 1945, prima della fine della guerra subì
(e sopravvisse) sei diversi attacchi di kamikaze, con una perdita
totale di 86 vite. Tra le navi principali che sopravvissero ad
attacchi multipli di kamikaze durante la seconda guerra mondiale,
vanno ricordate l'Intrepid e la Franklin, entrambe
della classe Essex.
L'ondata principale degli attacchi kamikaze
I primi successi, come l'affondamento
della St. Lo portarono a uno sviluppo immediato del programma
e nel giro dei mesi successivi vennero lanciati oltre 2000 attacchi
suicidi. Nel computo vanno compresi le azioni di guerra eseguite con
le bombe razzo Yokosuka MXY7 Ohka ("Bocciolo di
ciliegio", ribattezzate Baka: "folle" dagli
statunitensi), pensate come una sorta di missili a guida umana e
costruite appositamente per questo scopo, e gli assalti condotti con
piccole barche imbottite d'esplosivo, o torpedini guidate dette
kaiten.
Gli aerei kamikaze espressamente
costruiti come tali, a differenza dei caccia o bombardieri in
picchiata convertiti allo scopo, non possedevano meccanismi di
atterraggio. Un aeroplano progettato specificamente, il Nakajima
Ki-115 Tsurugi, era realizzato con una struttura in legno,
semplice da costruire e pensato per utilizzare le scorte di motori
rimanenti. Il carrello non era retrattile e veniva sganciato poco
dopo il decollo per consentire il riutilizzo con altri aeroplani.
Il picco dell'attività venne toccato
il 6 aprile 1945 durante la battaglia di Okinawa, quando varie ondate
di aeroplani condussero centinaia di attacchi durante l'Operazione
Kikusui (Crisantemi galleggianti). A Okinawa gli attacchi dei
kamikaze si focalizzarono all'inizio sui cacciatorpediniere in
servizio di protezione e quindi sulle portaerei al centro della
flotta. L'offensiva, per cui vennero utilizzati 1465 aeroplani,
seminò distruzione: i resoconti delle perdite variano, ma per la
fine della battaglia almeno 21 navi americane erano state affondate
dai kamikaze, insieme a navi alleate di altra nazionalità e dozzine
di altre erano state danneggiate.
L'offensiva comprese la missione di
sola andata della nave da battaglia Yamato, che non riuscì a
raggiungere le vicinanze dell'operazione perché affondata dagli
aerei alleati a diverse centinaia di miglia di distanza.
A causa della scarsità del loro
addestramento, i piloti kamikaze tendevano ad essere facili prede per
gli esperti piloti alleati, che pilotavano aerei di molto superiori.
Anche gli equipaggi navali alleati iniziarono a sviluppare tecniche
per neutralizzare gli attacchi dei kamikaze, come sparare con i
cannoni navali di grosso calibro nel mare lungo la direzione di
attacco, per poterli inondare. Queste tattiche non potevano essere
usate contro gli Okha ed altri attacchi veloci portati in
picchiata dall'alto, ma questi ultimi aerei erano più vulnerabili al
fuoco antiaereo e ai caccia Alleati.
Nel 1945 l'esercito giapponese iniziò
ad accumulare scorte di centinaia di Tsurugi, di altri aerei a
elica, di Ohka e di navi suicide per fronteggiare le forze
alleate, che si aspettavano avrebbero invaso il Giappone. Pochi di
essi vennero usati.
L'uso come difesa contro i raid aerei
Quando il Giappone iniziò ad essere
soggetto al bombardamento strategico da parte dei bombardieri B-29
Superfortress dopo la cattura di Iwo Jima l'esercito
giapponese tentò di usare attacchi suicidi contro questa minaccia.
Comunque questa si dimostrò molto meno
fruttuosa e pratica, poiché un aeroplano era un bersaglio molto più
piccolo, manovrabile e veloce di una tipica nave da guerra.
Aggiungendo a ciò il fatto che il B-29 possedeva un formidabile
armamentario difensivo, gli attacchi suicidi contro questo tipo di
aeroplano richiedevano un'abilità di volo considerevole per avere
successo. Ciò era contrario allo scopo fondamentale di usare piloti
sacrificabili e incoraggiare i piloti abili a balzare fuori prima
dell'impatto era inefficace causando spesso la morte di personale
vitale che calcolava male il tempo di uscita e falliva l'impatto e/o
ne restava ucciso.
Effetti
Alla fine della seconda guerra mondiale il servizio aeronautico
della marina giapponese aveva sacrificato 2.526 piloti kamikaze,
mentre quello dell'esercito ne aveva sacrificati 1.387. Secondo un
dato ufficiale, di fonte giapponese, le missioni affondarono 81 navi
e ne danneggiarono 195, ammontando (rispetto al conteggio giapponese
dei danni inflitti) all'80% delle perdite USA durante le fasi finali
della guerra nel Pacifico. Secondo una fonte delle forze aeree
americane:
«Approssimativamente 2.800 attaccanti kamikaze affondarono 34
navi della marina, ne danneggiarono altre 368, uccisero 4.900
marinai e ne ferirono oltre 4.800. Nonostante l'allarme dei radar,
l'intercettazione in volo ed un massiccio fuoco antiaereo il 14%
degli attacchi Kamikaze giungeva fino all'impatto contro una nave;
circa l'8,5% delle navi colpite dagli attacchi kamikaze affondò»
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(Airforcehistory)
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Tradizioni e
folklore
«Voi siete il tesoro della
nazione; con lo stesso spirito eroico dei kamikaze, battetevi per
il benessere del Giappone e per la pace nel mondo.»
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(Dalla lettera scritta dal viceammiraglio Takijirō
Ōnishi, principale fautore dei kamikaze, e
indirizzata ai giovani giapponesi, prima di suicidarsi il 15
agosto 1945) |
L'esercito giapponese non ebbe mai
problemi nel reclutare volontari per le missioni kamikaze; in effetti
ci fu il triplo di volontari rispetto agli aerei disponibili. In
conseguenza di ciò i piloti esperti venivano scartati, in quanto
considerati meglio impiegati in ruoli difensivi e di insegnamento. Il
pilota kamikaze medio aveva circa 20 anni e studiava scienze
all'università. Le motivazioni nell'offrirsi volontario andavano dal
patriottismo, al desiderio di portare onore alle proprie famiglie, al
mettersi alla prova in maniera estrema.
Venivano spesso tenute cerimonie
speciali, immediatamente prima della partenza delle missioni
kamikaze, nelle quali ai piloti che portavano preghiere delle loro
famiglie venivano date decorazioni militari. Queste pratiche
aiutavano a romanzare le missioni suicide, attraendo pertanto altri
volontari. I kamikaze giapponesi inoltre indossavano la nota bandana
bianca con dei motivi patriottici disegnati, chiamata hachimaki.
Secondo la leggenda i giovani piloti
delle missioni kamikaze spesso volano a sud-ovest dal Giappone sopra
il monte Kaimon, alto 922 metri. La montagna è anche detta "Satsuma
Fuji" (indicando una montagna bella simmetricamente, come il
Monte Fuji, ma situata nella regione di Satsuma). I piloti delle
missioni suicide vedevano questo guardandosi alle spalle, la montagna
più a sud del Giappone mentre erano in aria, dicendo addio al
proprio paese e salutavano la montagna.
I residenti dell'isola di Kikajima, ad
est di Amami Ōshima, dicono che i piloti delle missioni suicide
lanciavano fiori dall'aria mentre partivano per la loro missione
suicida. Presumibilmente le colline sopra l'aeroporto di Kikajima
hanno campi di fiordalisi che sbocciano all'inizio di maggio.
Rappresentazioni artistiche ed influenza
Cinema
Il regista statunitense Steven
Spielberg inserì tra i personaggi del suo film L'impero del sole
un giovane giapponese, amico del protagonista, che tenta inutilmente
di partecipare a una missione suicida alla fine della guerra.
Un altro film di discreto successo è
l'Eien no Zero, di produzione giapponese.
Arti figurative
Lo scultore Sergio Zanni espose
kamikaze di grandi dimensioni nella mostra personale al PAC
(Padiglione di Arte Contemporanea) di Palazzo Massari, Ferrara, dal 4
giugno al 29 agosto 2004.
Musica
La cantante veneta Donatella Rettore e
il paroliere Claudio Rego s'ispirarono largamente alle missioni dei
kamikaze per il loro album Kamikaze Rock 'n' Roll Suicide
(1982).
Il cantautore di musica alternativa italiana Sköll dedicò la
canzone
Unità di attacco Shikishima del disco
Sole e
Acciaio ai soldati kamikaze.
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