martedì 4 novembre 2014

Zhi neng

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Zhi neng (智能) o Chi-lel da alcuni parlanti statunitensi è uno stile di Qi gong ideato alla fine degli anni settanta dal dottor Pang He Ming.
Zhi () significa "conoscere", "comprendere"; Neng () significa "saper o poter fare". Zhi neng Qi gong (智能气功) significa quindi il Qi gong che sviluppa e consente di usare le capacità della mente. Infatti alcuni lo chiamano "Qi gong della saggezza" (wisdom qi gong).
Il suo scopo è quello di armonizzare il praticante con l'ambiente che lo circonda tramite l'equilibrazione del proprio Qi con il Qi dell'universo. In particolare, il tipo di Qi con il quale il Zhi neng lavora è lo Hun-yuan Qi (混元氣). Lo hun-yuan qi si definisce con tre caratteristiche:
  • è il Qi originario, primordiale, dal quale tutta la materia si è formata, è quindi antecedente alla divisione della Natura in Yin e Yang;
  • è presente in ogni cosa, in tutto l'universo;
  • può essere mosso tramite la mente, con l'intenzione: chiunque concentrandosi può focalizzarlo in un punto qualsiasi dello spazio.
Con la pratica del Zhi neng è possibile modificare la struttura subatomica di ogni cosa. Questa capacità è insita in ognuno di noi, con questo stile di Qi gong siamo solamente in grado di rendere più efficace un tipo di operazione che già facciamo di continuo. Il desiderio, l'intenzione, è in grado di modificare l'ambientre che ci circonda, è solo questione di tempo e costanza, ma il risultato si ottiene.
Quindi il Zhi neng Qi gong è in grado di curare qualsiasi malattia, è sufficiente indirizzare la pratica verso il problema che vogliamo eliminare e la costanza nella pratica ci guarirà. La guarigione si ottiene con un automatico e in parte inconsapevole mutamento della struttura subatomica degli organi interessati. In maniera minore si modifica tutto il corpo, proprio perché l'obiettivo ultimo del Zhi neng è l'armonizzazione di tutto il nostro corpo con l'ambiente.
Il Zhi neng Qi gong può essere praticato da chiunque, indipendentemente dall'età o dallo stato di salute, l'importante è tenere presenti i seguenti principi:
  • costanza
  • corretta esecuzione dei movimenti
  • calma e rilassamento
  • concentrazione
La pratica individuale consente di affinare la propria capacità di gestire e condurre il Qi, la pratica in gruppo è però più potente, perché grazie all'unione dei campi energetici individuali permette di muovere un maggior quantitativo di energia (qi).

Pang He Ming
Pang He Ming 庞鹤鸣 (nato nel 1940 a Dingxing, provincia dello Hebei, Cina) inizia la sua pratica medica secondo la medicina occidentale nel 1958, dopo essersi laureato presso il Collegio di medicina di Pechino. Dopo altri quattro anni di studio presso l'Associazione medica cinese di Pechino fa il dottore di medicina tradizionale cinese, e proprio in questi anni si avvicina al Qi gong e al Taijiquan.
Alla fine degli anni settanta codifica il Zhi neng Qi gong. Nel 1980 diffonde la prima parte degli esercizi, nel 1985 la seconda e nel 1991 la terza.
Esistono sei livelli di Zhi neng Qi gong, ma solo i primi tre sono stati resi noti da Pang Ming in quanto si può accedere al successivo livello di pratica solo dopo aver perfettamente compreso gli esercizi del proprio livello.
Attualmente il gran maestro Pang He Ming si è ritirato dall'attività di insegnamento per dedicarsi nuovamente allo studio del Zhi neng.

L'istituto Hua Xia Zhi neng Qi gong training center
Nel 1988 il gran maestro Pang He Ming fondò lo Hua Xia Zhi neng Qi gong training centre, ossia un ospedale ove migliaia di persone venivano addestrate nella pratica del Zhi neng per guarire dalle malattie senza medicine. All'inizio l'istituto era situato a Shijiazhuang, nella provincia dello Hebei, con il nome di Hebei Shijiazhuang Zhineng Qigong College, ma nel novembre 1991 si spostò a Qinhuandao con il nome definitivo. Nel 1996 viene fondato inoltre lo Hua Xia Zhineng Healing Center a Fengrun, nella contea Tangshan, sempre nella provincia dello Hebei.
Nel 2000 però la sede dovette chiudere a causa del divieto di pratica di Qi gong per gruppi di più di 50 persone stabilito dal governo cinese in seguito agli avvenimenti legati alla setta Fa-lun gong. In dodici anni nella Hua Xia sono transitati più di 300.000 degenti afflitti da più di 180 sindromi diverse registrando un miglioramento delle condizioni nel 95% dei casi. Nel 1997 lo China Sports Boreau fece un'indagine per evidenziare quali sono i venti migliori stili di Qi gong riguardo al miglioramento della salute e il zhineng risultò al primo posto.

Il primo livello
Gli esercizi principali del primo livello di Zhi neng qi gong sono i seguenti:
  • la forma Peng qi guan din
  • la posizione statica di fusione dei tre cuori (San xin pin Zhan-zhuan)
  • le flessioni sulle gambe (dun qian fa)
  • zhen-qi
  • stiramento dell'energia (la-qi)
Dopo ogni movimento di raccolta dello hun-yuan qi si porta questo al dan tian inferiore.
Prima di iniziare ognuno di questi esercizi è bene prepararsi nel modo seguente:
  1. rilassare ogni parte del corpo partendo dall'alto verso il basso
  2. creare un campo energetico, al fine di fondersi il più possibile con lo Hun-yuan qi dell'universo. Per creare un campo energetico è sufficiente immaginare di ingrandirsi sempre di più, aumentando le proprie dimensioni sino a comprendere gradualmente tutto il cosmo.
  3. indirizzare la pratica verso un obiettivo (per esempio guarire il cuore, oppure rafforzare i muscoli delle gambe, far crescere la pianta che ho accanto...)
I punti del corpo stimolati sono qui elencati dall'alto al basso:
  • Bai-hui: sul piano sagittale mediale del corpo, si trova all'apice del capo sopra le orecchie;
  • Yin-tan: a metà strada tra le sopracciglia;
  • Yu-zhen: dietro il capo, opposto a YIN-TAN;
  • Chi-hu: sono due punti, sopra ogni capezzolo, immediatamente sotto la clavicola;
  • Da-bao: sono due punti opposti (uno a sinistra l'altro a destra) all'altezza della parte finale dello sterno, sono situati sul piano frontale mediale del corpo;
  • Ming-men: sulla colonna vertebrale, all'altezza dell'ombelico;
  • Lao-gun: chiudendo ogni mano a pugno, è dove il medio tocca il palmo;
  • Hui-yin: a metà strada tra l'ano e i genitali;
  • Yong-quan: sulla pianta di ogni piede, a metà sulla linea che connette il terzo dito al tallone.


lunedì 3 novembre 2014

Si Euli

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Il Si Euli è un coltello-pugnale tradizionale indonesiano, originario dell'isola di Nias (e più precisamente della parte settentrionale dell'isola), a ovest di Sumatra. Esistono varie versioni dell'arma, portate quotidianamente dagli uomini.

Descrizione
È un coltello dotato di lama stretta e diritta; il manico, curvo verso l'estremità o leggermente piegato a metà della sua lunghezza, è separato dalla lama tramite una ghiera d'ottone. L'estremità dell'impugnatura può essere appiattita. Il fodero è diritto e, in prossimità dell'apertura per accogliere la lama, presenta una sporgenza perpendicolare alla sua lunghezza che si allunga verso il lato tagliente della lama. Verso il lato posteriore è presente una protuberanza leggermente ricurva. Il fodero può essere avvolto con del filo d'ottone e avere delle catenelle a cui vengono appese delle piccole campane. L'arma è portata diagonalmente al centro della cintura.


domenica 2 novembre 2014

Zweihänder

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La zweihänder (tedesco per “doppia impugnatura”, chiamato anche bidenhänder o bihänder), meglio noto come spadone, è un tipo di spada a due mani sviluppatasi nel corso del Rinascimento in Italia e nelle terre gravitanti intorno al Sacro Romano Impero Germanico (fond. Germania e Svizzera).

Costruzione
Stando alla trattatistica italiana di scherma tradizionale, lo spadone doveva essere alto quanto lo schermidore che lo brandiva (dove invece la spada a due mani doveva essere alta quanto l'ascella dello schermidore). L'elsa era di dimensioni prodigiose, con manica nominalmente "a due mani" ma, in realtà, nell'ordine dei quattro palmi (circa 50 cm) e guardia a crociera con bracci diritti di lunghezza complessiva simile a quella della manica. Con una simile impugnatura, lo schermidore riusciva ad imprimere velocità al pesante fendente dello spadone, sfruttando la mano avanzata, contro l'impugnatura, come perno e quella arretrata, presso il pomolo, come leva.
L'apparato decorativo del fornimento era, nella zweihänder, di solito scarso ma esistevano modelli riccamente decorati con materiale pregiato quale l'avorio. Tipica nell'arma era comunque la presenza di due anelli dipartenti dalla crociera, simili a quelli tipici della guardia di una katzbalger.
«Il spadone al modo eh 'oggi s'usa con quattro palmi di manico & piu et con quella croce grande non è stato ritrovato affine di adoprarlo da solo a solo a ugual partito come l'altre arme delle quali habbiamo trattato, ma per poter con esso solo a guisa d'un galeone fra molte galere resistere a molte spade o altre arme»
(Giacomo Grassi, Ragione di adoprar sicuramente l'Arme sì da offesa, come da difesa [...])
«...tal che esso Spadone viene ad esser compartito mezo in difendere, e mezo in offendere, e la sua lunghezza deve essere tanto lungo quanto è un huomo proportionato, ne grande, ne picciolo, esso deve havere doifili taglienti, e dev'esser molto leggiero, per poter l'osservatore di quest'arte, tirar di colpi di taglio, e punta, con maggior velocità, e minor fatica; ancora deve havere buon fornimento, per assicurare la mano istrumento principale d'operare secondo la natura, e regola dell'arte.»
(Francesco Alfieri)
In alcuni casi, una seconda guardia, costituita da denti di arresto (parierhaken) simili a quelli di uno spiedo da guerra o di una corsesca, lunghi all'incirca 5 cm, proteggeva l'estremità superiore del ricasso, a protezione della mano quando lo schermidore doveva eseguire manovre a "Mezza Spada".
La lama dello spadone era lunga generalmente un metro, a volte più, ed aveva il ricasso spesso protetto da una manica di cuoio. Parte della lama poteva avere il filo, su ambo i lati, ondulato. L'effettiva utilità di un "tagliente" a profilo ondulato è ad oggi ancora dibattuta: l'ipotesi che potesse servire per migliorare il colpo di taglio al momento dell'impatto, specialmente contro le aste di picche o alabarde, viene normalmente scartata; più interessante è invece l'ipotesi che il tagliente a serpentina servisse per scaricare maggior peso sulla lama della spada di un avversario al momento della parata, ipotesi questa che trova riscontro nella tipologia di spada da lato flambard diffusasi concomitantemente allo spadone come arma da duello.
Fatte salve le particolarità della linea e la modalità di utilizzo, le dimensioni degli spadoni europei, durante il XVI secolo erano molto varie. Una cernita degli spadoni conservati presso il museo Landeszeughaus di Graz rivela una lunghezza media di 170 cm ed un peso medio di 3,5 kg ma l'esemplare più grosso, pur restando nel campo delle armi pratiche e non cerimoniali, misura 199 cm per un peso di quasi 6 kg. Per quanto riguarda invece le armi dell'areale mediterraneo, come il Montante spagnolo, si stima una lunghezza media di 150 cm per un peso di 2-2,5 kg.
Esistevano anche zweihänder con lama interamente a serpentina. Si trattava sempre di armi decorative, caratterizzate da dimensioni e peso addirittura superiori rispetto agli spadoni per uso pratico: oltre 2 metri di lunghezza per più di 7 kg di peso. Questo tipo di arma era detta flamberga per la similitudine tra la lama ed il profilo della fiamma.

Storia
Giunto alla sua forma definitiva nelle terre gravitanti intorno al Sacro Romano Impero Germanico (fond. Italia, Germania e Svizzera) nel XV secolo, la zweihänder divenne famosa durante il Rinascimento come arma distintiva dei Mercenari svizzeri prima e dei Lanzichenecchi, corpo di fanteria creato dall'imperatore Massimiliano I d'Asburgo in opposizione agli svizzeri, poi. Luogo d'origine dell'arma, variante della normale spada a due mani utilizzata nel Tardo Medioevo per i duelli a piedi tra cavalieri, fu probabilmente la Spagna ove però l'arma, nota come Montante (anche Espadon in epoca successiva), non raggiunse mai le dimensioni prodigiose degli esemplari tedeschi.
L'uso della zweihänder, variante della normale spada a due mani utilizzata nel Tardo Medioevo per i duelli a piedi tra cavalieri, subì, nel corso del Rinascimento, una radicale evoluzione. Arma pesante e d'ampio raggio, votata a massicci attacchi di taglio, divenne equipaggiamento standard dei fanti più massicci e degli spadaccini più abili, disposti nelle linee frontali dello schieramento ed incaricati di sfrondare a furia di fendenti la selva delle picche nemiche per permettere ai compagni di caricare a fondo. Rispetto alla spada a due mani tradizionale, destinata allo scontro spadaccino-vs-spadaccino, lo spadone divenne quindi un "tranciapicche". Nel confronto poi con un avversario disarmato o armato di spada, lo spadone, quando non vibrato per mutilare, trovava la sua efficacia quale surrogato di un'arma inastata: lo schermidore, con la presa sull'impugnatura e sul ricasso, avventava lo zweihänder in un affondo più simile a quello di una lancia che di una spada.
I lanzi abili nel maneggio dello spadone, tanto quanto quelli armati di archibugio, erano indicati con il nome di Doppelsöldner e remunerati con paga doppia rispetto a quella dei compagni picchieri o alabardieri (Doppelsöldner significa appunto "doppio soldo", "doppia paga" in tedesco).
L'uso attivo dello spadone sui campi di battaglia decadde già al volgere del Cinquecento: l'aumentato numero di archibugieri tra le file degli eserciti europei (v. Pike and Shot) rese la carica iniziale dei Doppelsöldner verso il quadrato dei picchieri un mero ed inutile suicidio di massa.
La zweihänder restò in uso come arma da duello almeno sino alla fine del XVII secolo.

Utilizzo
L'efficacia dello spadone sul campo di battaglia è ancora oggetto di dispute serrate tra gli studiosi. Se, da una parte, è fuor di dubbio che cagione del problema sia stata l'eccessiva romanticizzazione della figura dello spadaccino armato di spadone nel corso del Romanticismo, è però vero che gli eventi bellici dell'Europa rinascimentale e moderna ci hanno tramandato la memoria di mortiferi spadaccini armati di zweihänder.
  • Forse il più conosciuto spadaccino armato di spadone è Pier Gerlofs Donia (1480-1520), pirata frisone attivo nella resistenza anti-Asburgo al principio del XVI secolo. Donia era noto per la sua abilità ed efficienza di spadaccino, nonché per la sua prodigiosa forza, al punto di divenire una leggenda: lo si riteneva capace di decapitare più persone con una singola sferzata del suo spadone. La zweihänder attribuita a lui, dal 2008, è ora nel Museo di Leeuwarden: ha una lunghezza di 213 cm (84 pollici) ed un peso di 6.6 kg (14½ lb).
Altre testimonianze porterebbe però a ritenere più plausibile l'opinione dello studioso Oakeshott, cioè che lo spadone trovasse una sua utilità principalmente nei duelli e nelle postazioni di difesa.
  • Durante l'assedio di Rodi (1522), i cavalieri Ospitalieri, soverchiati dal numero delle forze di Solimano il Magnifico (100.000 turchi contro 7000 cristiani), disposero a difesa delle mura i loro mercenari lanzichenecchi armati di spadoni. Dopo il massacro di 20.000 dei suoi uomini, periti dando l'assalto alla roccaforte cristiana, il sultano accettò di negoziare una resa favorevole al nemico. Durante gli scontri, si distinse il violentissimo Prégeant de Bidaux (Pregianni o Pier Gianni in italiano), pirata al soldo degli Ospitalieri e già cavaliere francese che “amava la guerra, odiava i turchi”, noto per il suo fisico erculeo e per il suo mortifero spadone, capace di tranciare "netto per la metà un uomo".
  • Nella Storia Fiorentina di Benedetto Varchi viene citato tale capitano Goro, mercenario al soldo di Firenze, che, impegnato a difendere il palazzo del comune dagli insorti volterrani, ne spacciò due usando sapientemente il suo spadone a due mani.
  • Un altro fiorentino, il bronzista e scultore Benvenuto Cellini, nella sua Vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze, cita, in occasione di un tentativo di furto a sue spese perpetrato da grassatori francesi durante il suo soggiorno a Parigi, l'uso, da parte sua, di uno spadone a due mani come insolita arma di difesa personale.
  • Lo spadone risulta incredibilmente flessibile nelle sue varie applicazioni, in grado di altalenare la sua funzionalità tra arma da taglio, da impatto ed arma inastata. Questo è reso possibile grazie alla notevole estensione della lama, alla distribuzione del peso ed alla buona protezione alle mani fornita dai denti d’arresto che consentiva differenti tipi di impugnatura. La fanteria lanzichenecca era infatti solita formare muri di uomini armati di spadone impugnato tenendo una mano sul ricasso, in questo modo l’arma poteva essere usata allo stesso modo di una lancia, in grado di fermare violente cariche di cavalleria disarcionando i cavalieri e mantenendo la stessa efficacia per gli scontri in mischia. Allo stesso tempo lo spadone può essere utilizzato come arma da taglio nel caso di nemici privi di corazza o da impatto qualora si affrontassero cavalieri corazzati a terra. La buona distanza coperta dalla lama e il buon controllo esercitato su di essa grazie alla “seconda impugnatura” sul ricasso permettono all’affilata punta dell’arma di essere guidata con precisione nei punti non protetti da cotta di maglia o armatura a piastre.


sabato 1 novembre 2014

Karatè, Italia terza nel medagliere ai mondiali in Portogallo



Gli sport cosiddetti minori vivono con risorse scarse, grande entusiasmo e molto volontariato. E il karatè non sfugge alla regola. Ecco perché solo nei giorni scorsi sono stati pubblicati i risultati definitivi dei campionati mondiali della Fska (l'associazione internazionale che raccoglie le società che si ispirano alla scuola fondata dai discendenti diretti del maestro Gichin Funakoshi, il codificatore del karatè moderno) che si sono svolti alla fine di settembre ad Almada, in Portogallo.
Ma l'attesa dell'esito dei mondiali, ai quali hanno preso parte atleti di tredici Paesi, ci ha riservato la bella sorpresa di trovare l'Italia al terzo posto nel medagliere, che è stato dominato dai padroni di casa con 60 medaglie d'oro. Fra gli ospiti la squadra azzurra è stata superata solo dall'Ucraina e ha battuto concorrenti molto «tosti» come kazaki e sudafricani.
Insomma, sulle rive dell'Atlantico - Almada si trova a pochi chilometri da Lisbona e si affaccia sulla costa a sud della foce del Tago - l'Italia del karatè si è fatta onore: 21 medaglie d'oro, 23 d'argento e 24 di bronzo. Dietro la fortissima Ucraina (29, 20 e 18) e davanti l'agguerritissimo Kazakistan (20, 10 e 10), il Sudafrica (6, 5 e 16), la Russia (5, 2 e 3) e la Polonia (3,2 2 e2). Via via gli altri Paesi partecipanti, fra i quali Inghilterra, Irlanda, Germania e India. Peccato che ai campionati mondiali Fska Portugal 2014 non abbiano potuto prendere parte, per motivi economici, gli atleti delle tante società Fska che operano in Usa, Argentina, Brasile, Cile, Messico, Uruguay, Venezuela, Indonesia, Iran, Israele eccetera.
Karatè sport minore ma anche e forse soprattutto sport giovane. Grazie all'impegno dei «sensei» che riescono a far appassionare alle arti marziali i bambini che dopo qualche anno, con le loro cinture verdi e blu, si impegnano e si divertono negli allenamenti per poi gioire, insieme con i loro genitori, nelle competizioni.
Per questo è opportuno segnalare la società Kokoro Dai di Cairate (in provincia di Varese) che ha fra i suoi tesserati i due italiani campioni del mondo under 15 Matteo Simonelli, primo nel kumitè (combattimento) e Francesco Pricolo, primo nel katà (stile), entrambi allievi del maestro Mauro Volpini, che ad Almada ha avuto la grande soddisfazione di festeggiare anche gli argenti e i bronzi di tutti gli altri suoi ragazzi che hanno preso parte alla spedizione in Portogallo.





venerdì 27 giugno 2014

Chi è stato il piu' grande pugile dopo Muhammad Ali?


"Tarchiato, lento, tecnicamente grezzo e dotato di un allungo inferiore alla media dei massimi (170 cm, il minore in assoluto nella storia dei campioni del mondo dei pesi massimi), riusciva a compensare questi limiti con l'aggressività (talvolta al limite delle regole del ring), la resistenza fisica e, soprattutto, col suo destro terrificante, che gli valse il soprannome di "The Brockton Blockbuster" (Il bombardiere di Brockton)".
Questo era Rocky Marciano! Da molti esperti viene ritenuto il pugile più letale di sempre, non ha mai perso un incontro dei 49 disputati, e di questi ben 43 li ha vinti per KO (87,76%!).



lunedì 23 giugno 2014

Qual è il coltello piu' pericoloso che si possa comprare? Ovviamente senza l’intenzione di usarlo.


Il coltello più letale sul mercato costa dai 400 ai 500 dollari circa e si chiama The Wasp Injection Knife. Contiene una cartuccia di CO2 nell'impugnatura e quando si accoltella la vittima, premendo il pulsante posto dietro la guardia, inietta il contenuto della cartuccia provocando ingenti danni ai tessuti, causati dalla sovrappressione e dal congelamento.
Ora, per prima cosa devi arrivare al tuo bersaglio poi, come altri hanno detto, devi usare il coltello prima che la vittima sappia che ce l'hai e sperare che non riesca a prendertelo e ad usarlo su di te. Ho avuto un giovane soldato che una volta mi ha chiesto di insegnargli come combattere coi coltelli, gli dissi che la prima lezione di combattimento coi coltelli è "Aspettatevi dei tagli" perché non importa quanto sei bravo, a meno che l'attacco non avvenga da dietro e di sorpresa, se anche l'altra persona ha un coltello, ci si taglierà .






domenica 22 giugno 2014

Artemisia I

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Artemisia I di Caria (in greco antico: Aρτεμισία, Artemisía; Alicarnasso, fine VI secolo a.C. – V secolo a.C.) dopo la morte del marito, di cui è ignoto il nome, divenne sovrana delle città di Alicarnasso, in Asia minore, e dei territori annessi di Coo, Nisiro e Calinda.
È ricordata soprattutto per la sua partecipazione alle battaglie di Capo Artemisio e di Salamina (480 a.C.) come alleata dell'Impero achemenide contro la coalizione greca, nel corso della seconda guerra persiana. Artemisia, unica donna col grado di comandante nella flotta di Serse, era alla guida di cinque triremi, che avevano un'ottima reputazione fra tutte le navi del Re dei Re, seconda solo a quella delle navi di Sidone.

Biografia
Origini e famiglia
Artemisia, il cui nome deriva dalla dea della caccia Artemide, nacque da Ligdami I (in greco antico: Λύγδαμις, Lygdamis), il satrapo di Alicarnasso, e da una donna cretese, della quale non si conoscono i dati anagrafici.
Dopo la morte del marito (il cui nome ė ignoto), Artemisia salì al trono come tutrice del figlio Pisindeli (in greco antico: Πισίνδηλις, Pisìndelis), a causa della sua minore età. Il suo regno, che dipendeva formalmente dall'impero achemenide, si estendeva per la regione della Caria, nell'odierna Turchia, e comprendeva la capitale Alicarnasso, la città alleata di Calinda e le isole di Coo e di Nisiro.

Regina di Caria
Da regina, Artemisia preferiva la navigazione e la guerra alla vita di corte. Polieno riporta infatti che la regina era solita cambiare repentinamente le insegne e i colori della sua trireme, fingendosi una nave greca o persiana a seconda delle imbarcazioni incrociate quando navigava in acque internazionali, per ingannare così gli equipaggi delle altre navi ed allontanarsi indisturbata o attaccare di sorpresa a seconda delle circostanze.
Secondo la testimonianza di Tessalo, figlio di Ippocrate, quando Serse chiese agli abitanti dell'isola di Coo di sottomettersi a lui, avendo ricevuto un netto rifiuto, inviò Artemisia a conquistare l'isola, a dimostrazione della fiducia che nutriva in lei.
Polieno riporta che quando Artemisia volle conquistare la città di Eraclea al Latmo, fece nascondere i suoi soldati vicino alla città e si recò invece lei stessa in processione, con altre donne, eunuchi e musicisti, alla tomba della Madre degli dèi, che si trovava a sette stadi dalla città. Gli abitanti, incuriositi, seguirono il corteo per assistere al sacrificio lasciando sguarnite le mura difensive e consentendo così ai soldati di Artemisia di prendere facilmente la città.

Battaglia di Capo Artemisio
Quando Serse I di Persia invase la Grecia nel 480 a.C., dando inizio alla seconda guerra persiana, Artemisia partecipò alla spedizione in quanto alleata e vassalla del gran re. La regina partì al comando delle sue cinque triremi e si unì al resto dell'imponente flotta persiana, che contava oltre mille navi. Secondo Erodoto, Artemisia era l'unica comandante di sesso femminile di tutte le forze armate radunate da Serse e le sue triremi avevano la miglior reputazione di tutta la flotta, seconda solo a quella delle navi provenienti da Sidone.
Artemisia partecipò alla battaglia di Capo Artemisio contro la coalizione ellenica, guidata dall'ateniese Temistocle e dallo spartano Euribiade. Questa battaglia navale, che fu combattuta contemporaneamente alla battaglia delle Termopili nell'agosto del 480 a.C., si risolse senza né vinti né vincitori. Artemisia, secondo Erodoto, si distinse in essa in modo "non inferiore" agli altri comandanti persiani.

Battaglia di Salamina
Dopo la battaglia di Capo Artemisio, Mardonio, il comandante supremo delle forze armate persiane, convocò tutti i comandanti dell'esercito persiano per chiedere loro consiglio, su mandato di Serse, se attaccare via mare o via terra. Tutti i generali, secondo il racconto di Erodoto, consigliarono di procedere con un'altra battaglia navale, con la sola eccezione di Artemisia, che invece suggeriva uno scontro campale fra i rispettivi eserciti.
Artemisia sosteneva infatti che, mentre la superiorità dell'esercito di Serse era schiacciante, sul mare erano i Greci a dimostrarsi superiori. Inoltre, secondo la regina, Serse avrebbe fatto meglio a risparmiare le sue navi, tenendole vicino a riva o al limite muovendosi verso il Peloponneso. Un'eventuale sconfitta navale, secondo Artemisia, avrebbe seriamente compromesso i rifornimenti e il morale delle truppe. Inoltre, in caso di scontro in mare, il re non avrebbe probabilmente potuto contare sulle navi alleate che provenivano dall'Egitto, dalla Panfilia, da Cipro e dalla Cilicia, che la regina riteneva non completamente affidabili per una battaglia navale.
Secondo il racconto di Erodoto, Serse tenne in grande considerazione il discorso di Artemisia, che stimava molto, ma preferì dar retta al resto dei comandanti, che spingevano invece per la battaglia navale, convinto che questa volta i suoi avrebbero avuto la meglio, sapendo che il re in persona avrebbe assistito alla battaglia da un trono situato sul Monte Egaleo. La flotta persiana mosse quindi verso l'isola di Salamina, dove la flotta greca, guidata ancora da Temistocle e da Euribiade, la stava aspettando al varco (settembre 480 a.C.).
Nonostante l'inferiorità numerica, la flotta greca ebbe la meglio su quella persiana, grazie alla strategia vincente dei suoi comandanti. Quando ormai la sorte della flotta persiana era segnata, Polieno racconta che Artemisia, vistasi ormai perduta, mise in atto il suo stratagemma che aveva già usato in altre occasioni, per salvare la sua vita e la sua nave ammiraglia. Ordinò quindi ai marinai di sostituire prontamente le insegne della nave, che riportavano i colori e i simboli della flotta persiana, con altri contrassegni, preventivamente preparati allo scopo, che riportavano invece i colori e i simboli della flotta greca. In questo modo, le navi greche che si erano avvicinate alla sua ammiraglia, la scambiarono per una trireme loro alleata, evitando quindi di attaccarla. Per perfezionare l'inganno, Artemisia ordinò al suo equipaggio di attaccare la nave che si trovava a lei vicina, ovvero la trireme comandata dal re di Calinda, Damasitimo (in greco antico: Δαμασίθυμος, Damasithymos), suo suddito e alleato.
La nave di Damasitimo, colta di sorpresa, fu rapidamente affondata e il re di Calinda trovò la morte in mare, ucciso dalla sua stessa comandante. Secondo il racconto di Erodoto, Artemisia aveva probabilmente un conto in sospeso con Damasitimo, tanto che lo storico di Alicarnasso insinua che l'affondamento della nave alleata potesse essere in realtà una manovra del tutto intenzionale da parte della regina, che avrebbe così colto un'occasione d'oro per eliminare lo scomodo subalterno. In ogni caso, nessuno della nave affondata da Artemisia sopravvisse per poterla poi accusare formalmente.
Aminia, il trierarca ateniese che Artemisia aveva di fronte nel momento dell'affondamento della nave di Damasitimo, ingannato dallo stratagemma della regina si allontanò dirigendosi verso un altro settore dello scontro navale. Erodoto sottolinea che Aminia sicuramente non aveva riconosciuto la nave della regina, in quanto gli Ateniesi avevano promesso una ricchissima ricompensa di diecimila dracme a chi avesse ucciso Artemisia, dato che reputavano del tutto intollerabile che una donna muovesse guerra contro Atene.
Secondo lo storico di Alicarnasso, Serse, osservando dal suo trono in terraferma la manovra di Artemisia e la contemporanea e completa disfatta della sua flotta, esclamò: "I miei uomini sono diventati donne e le mie donne sono diventate uomini".
Plutarco testimonia che Artemisia, ritirandosi dal teatro dello scontro navale, riconobbe in mare il cadavere di Ariamene (in greco antico: Ἀριαμένης, Ariaménes), il fratello di Serse caduto in battaglia. Ne recuperò quindi il corpo e lo riportò al re per gli onori funebri.

Dopo la battaglia di Salamina
Secondo la testimonianza di Erodoto, Serse, dopo la sconfitta di Salamina, chiese consiglio ad Artemisia su come continuare la guerra, ovvero se guidare l'esercito personalmente contro i Greci oppure ritirarsi in Persia e lasciare il comando a Mardonio. Artemisia suggerì al Re dei Re quest'ultima ipotesi: secondo la regina di Caria, infatti, se Mardonio avesse vinto la guerra, il merito sarebbe andato a Serse, mentre se avesse perso, il Re dei Re sarebbe stato al sicuro a casa e la colpa della sconfitta sarebbe caduta sul generale. Serse seguì il consiglio di Artemisia e tornò in Persia, lasciando il comando a Mardonio che sarebbe stato definitivamente sconfitto a Platea dalla coalizione greca guidata da Pausania. Il re dei re ricompensò Artemisia con una armatura greca per il coraggio dimostrato e la inviò ad Efeso a prendersi cura dei suoi figli illegittimi.
Le fonti antiche non registrano altre notizie su Artemisia, se non una leggenda tarda, riportata da Fozio, secondo la quale si sarebbe gettata in mare dalla rocca di Leucade per essere stata respinta da un uomo chiamato Dardano.
Le succedette sul trono di Caria il figlio Pisindeli, a sua volta padre di Ligdami II, il re che era al potere quando Erodoto, che era originario di Alicarnasso, lasciò la città per recarsi a Samo.

Nella cultura di massa
Artemisia I di Caria è interpretata dall'attrice di Guernsey Anne Wakefield nel film L'eroe di Sparta (The 300 Spartans) del 1962 e dall'attrice francese Eva Green nel film 300 - L'alba di un impero del 2014.


sabato 21 giugno 2014

Zen Nippon Kendō Renmei Iai

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Lo Zen Nippon Kendō Renmei Iai (全日本剣道連盟居合 zen nihon kendō renmei iai ), o più comunemente solo Seitei Iai (制定 居合 seitei iai), è lo stile di iaidō ufficiale della All Japan Kendo Federation.
Nel 1969 l'AJKF codificò per la prima volta sette forme di iaidō scelte tra le maggiori scuole tradizionali koryū (古流 koryū ) di kenjutsu, kendō, iaijutsu e iaidō, sintetizzandole in un unico kata. Nel 1976 ci fu una rivisitazione generale del kata ad opera della commissione tecnica, e nel 1980 furono aggiunte altre tre forme. Infine, il 2 dicembre 2000 furono aggiunte le ultime due forme che unite alle precedenti, formano le attuali dodici forme del kata seitei-iai.
Nel seitei quindi è evidente l'influenza predominante della Musō Jikiden Eishin-ryū, della Musō Shinden-ryū e della Hoki-ryū, motivi per cui il seitei si presta come ottimo strumento valutativo degli iaidōka ai fini sia dello studio dello iaidō che dei passaggi di grado.

Composizione del kata
Il seitei iai si divide in tre serie:
  • Seiza-no-bu
  1. Mae ( Di fronte)
  1. Ushiro (後ろ Dietro)
  2. Ukenagashi (受け流し Ricevere, deviare e tagliare)
  • Iai-hiza-no-bu
  1. Tsuka-ate (柄当て Colpire con l'impugnatura)
  • Tachiai-no-bu
  1. Kesa-giri (袈裟切り Taglio diagonale)
  2. Morote-zuki (諸手突き Colpo a due mani)
  3. Sanpō-giri (三方切り Taglio in tre direzioni)
  4. Ganmen-ate (顔面当て Colpo al volto)
  5. Soete-zuki (添え手突き Affondo a mani unite)
  6. Shihō-giri (四方切り Taglio in quattro direzioni)
  7. Sō-giri (総切り Tagli completi)
  8. Nukiuchi (抜き打ち Estrazione improvvisa)



venerdì 20 giugno 2014

Beauceant

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Il Beauceant (anche Baucéans, Bassant, Beauséant, Baussant) era il vessillo dei cavalieri Templari, formalmente una bandiera o scudo, anche detto gonfalone baussant.

Etimologia
Si tratta di uno stendardo bipartito, ossia diviso in due parti simmetriche, una bianca ed una nera, caratteristica da cui deriverebbe il suo nome, secondo quanto attribuitogli da Frédéric Godefroy nel suo "Dictionnaire de l'ancienne langue française et de tous ses dialectes du IXe au XVe siècle".
Stando invece all'interpretazione di Oddvar Olsen in “The Temple Antiquities: the Templar papers II, Vol.2 “il termine deriverebbe dal provenzale bausan, a sua volta derivato dall'italiano balza, che significa bordo, fascia. La balzana in araldica indica infatti uno scudo o stemma bipartito orizzontalmente.
Potrebbe poi derivare dal termine provenzale balzan, che si riferisce ad una particolare tipologia di cavallo dal manto nero, avente macchie bianche sugli arti (detto appunto cavallo balzano in italiano).
Un'ulteriore interpretazione dell'etimologia del termine ci viene fornita dal motto che appariva sullo stendardo: "Vaucent" (dal francese vaut cent, in italiano vale cento), adottato come simbolo del valore e del coraggio di questi fieri cavalieri. «Portavano i Templari uno stendardo bianco e nero nel quale era scritto questo motto, Vaucent, che nell'italiana lingua suona val cento, volendo accennare al fatto che ognuno di loro armato di fede ed aiutato dalla favore divino valeva cento dei nemici ed infedeli. E dietro a questo stendardo andavano i Templari cantando quel verso dal salmista: Non nobis, Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam'' (“Non a noi, o Signore, ma al tuo nome dà gloria”. Il testo è la traduzione dei versetti del Salmo 113.9 Antica Vulgata della Bibbia o del Salmo 115.1 numerazione ebraica). Fu forse quello stendardo evidente presagio di ciò ch' esser doveva di quella militia» [...] Historia della sacra religione et illustrissima militia di S. Giovanni Gierosolimitano di Giacomo Bosio.
Secondo l'interpretazione di Jacques de Vitry, storico dell'epoca e Vescovo di San Giovanni d'Acri, i Templari erano «dei leoni in guerra, degli agnelli in pace», concetto che si rispecchierebbe nella scelta dei colori del loro vessillo: il nero a simbolizzare la ferocia dei Templari verso i loro nemici, mentre il bianco a rappresentarne la benevolenza per gli amici.

Colori e forma
Disparate sono anche le versioni del vessillo, molto probabilmente dovute a successivi adattamenti avvenuti nel tempo: nella "Chronica Majora" del monaco benedettino e storico Matthew Paris lo si descrive d'argento con estremità superiore nera; Giancarlo Pucci nel suo "L'ordine del Tempio: storia e condanna dei templari" ci ricorda che «nel 1130 Baldovino II vide arrivare Hugues de Payns preceduto dallo stendardo il Beauceant partito di bianco e nero»; in uno degli affreschi del XIII secolo della chiesa di San Bevignate a Perugia (vedi Complesso Templare di San Bevignate) possiamo tutt'oggi apprezzarlo come uno spaccato nero e bianco, con croce patente a cavallo delle due porzioni. Lo stesso Jacques de Vitry menziona le “gonfanon baucent” ed il “Baucent” adornati dalla croce vermiglia dei cavalieri. Cronisti dell'epoca si sbizzarriscono nel rappresentarlo come orifiamma o pennone, che veniva portato sulla punta delle lance, avente forma di lunga fiamma a 3 code interamente bianca e provvista di una croce patente rossa, oppure come semplice vessillo a 2 punte diviso “per fesse” ovvero orizzontalmente.
Quel che è certo è che nella Regola dell'Ordine del tempio, approvata nel 1129 durante il Concilio di Troyes, non ci sono riferimenti alla croce, mentre la troviamo menzionata nella bolla pontificia “Omne datum optimum” emanata da Papa Innocenzo II nel 1139 e sappiamo che nel 1147 papa Eugenio III concesse ai Templari l'uso della croce patente.
A proposito di interpretazioni e colori, Robert Macoy in "History of the Knight Templars" ci fa notare quanto sia interessante il parallelo con il simbolismo metaforico orientale. Durante le guerre Saracene venivano esposte in sequenza: il primo giorno la bandiera bianca, ad indicare che il nemico doveva arrendersi, quella rossa il secondo giorno, a simbolizzare il sangue di pochi, quella nera il terzo giorno, che significa la distruzione universale.
Pur sorvolando le possibili influenze arabe, non dobbiamo dimenticarci che i Templari erano dei monaci tanto quanto dei cavalieri e nel simbolismo tradizionale i colori bianco e nero rappresentano l'aspetto spirituale e quello temporale del loro mandato, la duplicità insita nella natura dell'Ordine, monastico e guerriero, oltre all'ovvia interpretazione dualistica del bene contro il male, del cielo e della terra, della luce e delle tenebre. «E su tutti una croce, rossa come il sangue, cha esprime la prontezza al martirio e indica la loro appartenenza».
Per completezza citiamo infine le congetture in merito alle influenze esoteriche ed occultiste ravvisabili secondo alcuni storici nelle filosofie templari, influenze che porterebbero ad interpretare lo schema di colori bianco e nero quali rappresentazione delle due forze cosmiche opposte e complementari in costante dinamismo.

Utilizzo
La Regola detta che in tempi di pace questo emblema militare veniva custodito nella residenza del Maestro, mentre in guerra doveva essere difeso da fratelli-cavalieri, fino ad un numero di 10. Questi dovevano proteggerla al meglio delle loro possibilità, non dovendo ciascuno di essi abbandonare il gonfalone per alcuna ragione; perderlo o lasciarlo cadere nelle mani del nemico veniva considerato come un disonore che avrebbe esposto il cavaliere ad una severa punizione, che poteva arrivare fino all'esclusione dall'ordine.
Il portatore dell'insegna (gonfaloniere, vessillifero o Balcanifer), era una carica di responsabilità eletta fra i sergenti dal Siniscalco o dal Maresciallo.
Uno degli scopi pratici principali del Beauceant era indicare il punto di raduno dei Templari sul campo di battaglia ma il drappo, oltre che insegna che accompagna i cavalieri in guerra, assunse il significato simbolico di legittimazione per mandato celeste, comandamento Donato, che conduce alla vittoria e permette di distruggere le forze negative. Di ritorno dal campo il vessillo tornava a sventolare sulla tenda del Maestro. Stando a quanto riportato da C.G. Addison il Beauceant venne utilizzato per la prima volta nel 1146 allorché i Templari si prepararono ad attaccare Damasco. In questa occasione il maestro del tempio Everad des Barres accompagnò Luigi VII di Francia nella seconda crociata, ma sfortunatamente non cita la fonte da cui trae l'informazione.


giovedì 19 giugno 2014

Cintura nera a 101 anni Karate Kid è una nonna

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Basta, finiamola con la solita minestrina di nonna Papera che cuoce crostate a Qui, Quo, Qua, perché oggi, anche sotto il canuto crine, le donne chiedono la loro riscossa. 

Maria Rossi, bergamasca, si mangia Angelina Jolie e la sua intrepida Lara Croft come se fosse un'albicocca in composta. Nel corso di un sonoro incontro la stenderebbe con una mossa di karate, in una sfida da far impallidire un film fantasy, visto che la signora ha 101 anni. Il 6 agosto scorso, ricorrente il suo ultracentenario genetliaco, Maria Rossi ha preso la sacca sportiva, è andata nella vicina palestra di Briolo, si è cambiata nello spogliatoio da sola e si è presentata in kimono bianco sul tatami, mettendo alla prova un nugolo di Qui, Quo, Qua tra i 6 e i 15 anni.
«È stato il mio compleanno migliore. Ho sfogato la lazzarona che è in me» racconta con una sonora risata. La piccola ricamatrice, che per l'intera femminea quanto composta esistenza ha puntato innocenti margherite e leggiadri amorini sui corredi delle spose, ha atteso un secolo vero per realizzare il suo sogno: diventare cintura nera di karate, conferitale ad honorem dal maestro Luigi Strazzullo e dal suo nido di allievi, che messi tutti insieme non arrivano ai suoi 101 anni.
È trascorso un ventennio sotto il bergamasco Ponte San Pietro, Comune di cui Briolo è quartiere, da quando Maria ammirava la sua unica figlia, Marisa, mentre si allenava nella disciplina giapponese che la incantò, ma che non poteva praticare perché troppo presa a puntare l'ago per decorare sugli abitini dei bebè, che nel frattempo le sue spose avevano sfornato, fiocchetti e nontiscordardime. «Ne avevo abbastanza di colorini azzurri e rosa. A me interessava la cintura nera». Così dopo alcune mosse di age - uke, parata alta, e soto - uke, parata media, eseguite con perfetta abilità motoria, il 6 agosto l'arzilla bergamasca si è legata la fascia nera alla vita, pensando: «Nero, altro che segno di lutto, segno di forza, visto che voglio arrivare a 120 anni».
E non ha speso un euro per allenarsi. Fino a pochi anni fa faceva quattro chilometri in bicicletta per andare a portare i fiori al defunto consorte sulla tomba di Brembate di Sopra, ma, quando la figlia Marisa e il genero Vittorio hanno iniziato a preoccuparsi, si è fatta regalare una cyclette su cui sale tutte le mattine, avvertendo con spiccata metafora: «Vado fino a Brembate di Sopra». La cyclette le piace, forse perché non la costringe a incontrare il medico del paese che, avendola vista una volta in bici, la fermò per dirle: «Signora, lei è una mia paziente ma non ci siamo mai conosciuti». Maria ha pensato «per fortuna!», visto che non ha mai preso medicine, se non una pastiglietta per la pressione alta che ora, fiduciosa dell'effetto del karate, ha intenzione di interrompere.
Nella casa di Vittorio e Marisa trascorre una vita serena. Cucina, non crostate perché non ha nipoti, così non ha neppure il problema di sentirsi definire «nonna», ma soprattutto legge. Scorre gli occhi di un azzurro stoviglia, senza occhiali, sulle pagine delle vite dei Santi, perché a lei piacciono le biografie di quegli uomini e donne che hanno provato a tirare a karate con l'Altissimo per metterlo al tappeto. Ogni tanto il postino suona, una volta, e Maria dice, benché l'udito l'abbia un po' tradita: «Ah, saranno i libri che ho ordinato», ovviamente all'insaputa di tutti, perché i suoi 101 anni sono l'orgoglio di una presa di karate che vuol dire: «Grazie, mi difendo da sola».