martedì 11 giugno 2019

L'UOMO CHE UCCISE UN LEOPARDO A MANI NUDE: CARL AKELEY (1864-1926)

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Carl Ethan Akeley, nato a New York nel 1864, crebbe in una fattoria e frequentò poco la scuola, preferendo vivere all'aria aperta per studiare gli animali e le piante, un'inclinazione che lo portò a diventare apprendista del naturalista Henry Ward. Lavorare per lui e collaborare con vari musei lo portò in pratica a creare la tassidermia moderna: all'epoca per impagliare un animale si prendeva una pelle, la si riempiva di paglia e la si cuciva. I musei erano pieni di buffi pupazzoni che non potevano soddisfare un uomo come Akeley, il quale iniziò invece a sperimentare fino a creare una tecnica volta a riprodurre il più fedelmente l'animale rappresentato. Tramite la creazione di sculture da ricoprire con la pelle, e lo studio della muscolatura, della struttura ossea e del comportamento dell'animale, Akeley poté creare dei diorama che riproducevano fedelmente l'ambiente naturale da cui essi venivano.
Nel 1909 Akeley accompagnò Theodore Roosevelt in un viaggio in Africa finanziato dallo Smithsonian, con lo scopo di preservare le specie animali selvatiche. Potrebbe sembrarci strano che "preservare" si traducesse in andare personalmente in Africa per abbattere di tutto a colpi di calibro .557 (sufficiente ad sistemare un t-rex a cavallo di un triceratopo) per poi portare le pelli in America e metterle in un museo, ma la motivazione principale che spingeva Akeley era assicurarsi che le future generazioni avrebbero potuto osservare le bestie africane "in natura" nel caso in cui si fossero estinte. Durante una spedizione in Somalia, il naturalista aveva abbattuto una iena e un facocero, ma non soddisfatto li aveva lasciati sul posto per cercare di meglio. Al suo ritorno, non trovando più le carcasse e sentendo dei rumori provenienti da un cespuglio, pensò a una iena e fece fuoco, pur non sapendo quale animale si nascondesse nell'erba alta. Riconoscendo il ruggito di un leopardo, decise di tornare al campo, per tornare il mattino seguente con la speranza di averlo ferito a morte. Ma il felino era stato ferito solo di striscio, e seguì il cacciatore con l'intenzione di sbranarlo. Akeley si accorse della bestia che lo stava per aggredire e riuscì a sparare alcuni colpi, dei quali solo un paio riuscirono a colpire e ferire superficialmente l'animale. Ma grazie a ciò la belva mancò il colpo mortale e invece di affondare nella gola dell'uomo, le sue fauci andarono a chiudersi sul braccio proteso della vittima. Con il braccio intrappolato nella bocca del felino, Akeley fece l'impensabile: spinse ancora più in profondità il braccio nella bocca dell'animale, e iniziò a strangolarlo con l'altra mano. Liberato il braccio semi maciullato dalla presa, ne approfittò per schiacciare l'animale col suo peso e strangolarlo a morte.
Quando l'uomo coperto di sangue e coi vestiti laceri tornò al campo, i suoi portatori africani non poterono credere ai loro occhi. Pensando che si fosse imbattuto in indigeni ostili o un leone, lo avevano dato per morto e non erano nemmeno andati a cercarlo. L'esploratore si iniettò talmente tanti antisettici nel braccio che "il liquido di un'iniezione faceva uscire quella precedente". Ma era vivo, e a dimostrarlo c'era la carcassa di una delle più perfette macchine di morte che la natura avesse mai creato, dopo Carl Akeley. L'esploratore non si scoraggiò per l'increscioso avvenimento, ma continuò a esplorare e cacciare in nome della scienza. Sopravvisse dopo essere stato quasi impalato e calpestato da un'elefante straordinariamente grande, attraversò un fiume pieno di coccodrilli usando uno dei rettili morto come una zattera, sfuggì a tre rinoceronti che lo caricarono contemporaneamente, inventò uno sparacemento e una macchina fotografica usata anche da Hollywood e nella Prima Guerra Mondiale. Nel 1921, durante una spedizione per "studiare" i gorilla in Congo, Akeley ebbe una profonda riflessione e finì per convincere il re del Belgio Alberto I a istituire il parco nazionale dei Virunga, il primo del suo genere in Africa. Così il poliedrico cacciatore diventò anche uno dei primi e più influenti esponenti della causa ambientalista della conservazione delle specie animali. Il naturalista, scultore, inventore, tassidermista e fotografo trovò la morte nella sua Africa, all'età di 62 anni quando morì a causa della dissenteria in Congo, nel 1926.


lunedì 10 giugno 2019

IL VERO CAPITAN AMERICA: AUDIE MURPHY

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Quando un diciassettenne texano alto 1.66 m di neanche 51 kg venne rifiutato sia dalla Marina che dall'Aeronautica degli Stati Uniti d'America, non ci fu nessun super siero. Grazie alla sorella che fece letteralmente carte false, il giovane poté arruolarsi ed entrare nella 76esima divisione di fanteria e ricevere l'addestramento a Camp Wolters. Nonostante l'abilità col fucile e la baionetta, rimaneva di fisico gracile, tanto che gli venne offerta l'opzione di diventare cuoco, ma Audie rifiutò: voleva combattere ad ogni costo. Finito l'addestramento, raggiunse il Marocco e da lì la Sicilia con le truppe alleate della terza divisione. In Sicilia Audie prese la malaria ma vide anche l'azione per la prima volta quando uccise due ufficiali italiani a cavallo. Dopo lo sbarco a Salerno, nei pressi di Battipaglia, Murphy è in ricognizione con due compagni quando una mitragliatrice uccide uno dei due; Audie risponde col suo thompson e cinque tedeschi rimangono al suolo. La terza divisione venne poi spostata sul fronte francese che andava aprendosi anche nella Francia del Sud. Il sergente Murphy guida i suoi uomini nell'entroterra quando due tedeschi escono da una casa con una bandiera bianca, ma è una trappola: dall'edificio parte una raffica che uccide il suo amico Lattie Tipton. Audie entra in uno stato di furia omicida, avanza incurante del pericolo, uccide sei tedeschi, ne ferisce due e prende prigionieri gli altri. Quando poi la sua unità viene trasferita nel nord del paese Murphy è sempre in prima linea. Attacca a pochi metri di distanza nidi di mitragliatrice, avanza sotto il fuoco per guidare i suoi uomini, viene ferito più volte in azione. Ma è a Holtzwir che Murphy entra nel mito. Un feroce contrattacco tedesco aveva ridotto la sua compagnia da 235 a 18 uomini, di cui era rimasto l'unico ufficiale, benché ferito ad entrambe le gambe. I tedeschi attaccarono in forze, e un carro M10 venne colpito e prese fuoco. Audie ordinò ai suoi uomini di rimanere nel bosco, sparò gli ultimi colpi con la sua carabina M1, poi si issò sul carro in fiamme e fece fuoco con la mitragliatrice M2 contro l'ondata umana degli attaccanti. Per un'ora rimase sul carro in fiamme che poteva esplodere da un momento all'altro, esposto al fuoco nemico con pochissima copertura. Avendo finito le munizioni, il texano abbandonò il carro, che esplose dietro di lui, l'attacco tedesco ormai spezzato. Quando, al momento di decorarlo con la Medal of Honor, gli chiesero il motivo del suo gesto, rispose: "stavano uccidendo i miei amici". Audie Murphy venne decorato con ogni medaglia assegnabile durante il suo periodo di servizio, comprese alcune belghe e francesi (33 in tutto). Dopo la guerra diventò attore, realizzò una serie televisiva e più di 40 film, compreso l'autobiografico To Hell and Back, un colossale successo. Provato dallo stress postbellico si batté per far riconoscere l'impatto emotivo che la guerra aveva sui veterani, si liberò dalla dipendenza dal Placidyl chiudendosi per una settimana in albergo e nonostante le finanze dissestate rifiutò di fare da testimonial per tabacco e alcolici, consapevole del potere della sua immagine in quanto "soldato americano più decorato della Seconda Guerra Mondiale" . Morì il 28 maggio del 1971 in un incidente aereo.

domenica 9 giugno 2019

Beneficenza

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L'arte, la salute e l’appartenenza alla nostra città ci portano ad essere solidali nei confronti di tutte le difficili realtà che purtroppo esistono e che per questo non possiamo far finta di non vedere”.
Per questo motivo, dunque, una parte dei ricavati del Gruppo 1437 ed associati verrà devoluta in beneficenza. “Vogliamo essere con la città e per la città”.
Straordinario solista, attivo da circa trent’anni sulla scena italiana ed estera, volutamente lontano dai clamori della pubblicità e del presenzialismo, ma stimatissimo, Cesio Endrizzi incarna l’esempio di colui che è sempre alla ricerca di impasti inediti e soluzioni nuove, attraverso la sua arte comunica una rara voglia di divertirsi e giocare. Ha collaborato con campioni del Budo classico, alfieri del wushu moderno, fino a esponenti delle correnti più attuali.
Il ricavato delle nostre iniziative sarà interamente devoluto in beneficenza.
Il gruppo1437 in collaborazione con alcuni amici blogger presentano un'iniziativa a scopo benefico, fortemente voluto dal Presidente Cesio Endrizzi. Il ricavato sarà devoluto in beneficenza all'associazione il Bambino di vetro, per le attività a tutela dei bambini disabili, e per le Attività a Sostegno dei Disabili Adulti.
E' bene precisare subito che:
Gli eventi pubblici del gruppo 1437 non hanno fini di lucro.
Organizzatori ed addetti prestano il proprio servizio gratuitamente ed il ricavato viene interamente devoluto in beneficienza.
Anche il ricavato dalla pubblicità andrà quindi devoluto in beneficienza.

Al momento ci sostengono:
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sabato 8 giugno 2019

DOMENICO MONDELLI: IL GENERALE NERO

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Nato ad Asmara il 30 giugno 1886, era figlio di una eritrea e di un italiano, lo stesso che successivamente cercherà di adottarlo, ovvero l’allora tenente dei bersaglieri, poi divenuto colonnello, Attilio Mondelli.
A sei anni Domenico viene portato in Italia, a Parma, e qui inizia gli studi in attesa di maturare il requisito dei diciotto anni che gli consentirà l’adozione, ma la situazione si complica per via del fatto che Attilio Mondelli, innamoratosi di una giovane bolognese, diventa padre due volte e la legge di allora non consentiva l’adozione a chi aveva già dei figli naturali.
Per raggiungere lo scopo di farlo diventare italiano, Attilio Mondelli lo iscrive al Collegio Militare di Roma e, susseguentemente, il giovane entra alla Regia Accademia Militare di Modena da dove uscirà nel 1905 con il grado di sottotenente e, secondo quanto previsto dal codice civile del 1865, italiano in quanto militare. Il giovane ufficiale sceglie il corpo dei Bersaglieri che aveva visto già a metà dell’ottocento un altro ufficiale moro, il capitano Michele Amatore. Successivamente presta servizio in Italia e Eritrea dove non vi sono problemi di coabitazione coi colleghi e nei rapporti con la truppa bianca.
L’entrata in guerra dell’Italia il 24 maggio 1915 lo vede inquadrato con il grado di capitano pilota nel Corpo Aeronautico Militare, dove intanto è transitato dopo avere conseguito il brevetto di pilotaggio. Volando a bassa quota sul fronte nemico, rimedia una ferita e la sua prima medaglia di bronzo al valore Militare. La guerra continua e il 18 febbraio 1916 Domenico Mondelli assume il comando della 7^ Squadriglia da bombardamento, per poi passare poi al comando, nell’aprile del 1917, della 1^ Squadriglia Caproni e, in luglio, al comando dell’XI Gruppo.
La fama di combattente, e sembra un certo successo col mondo femminile, lo resero oggetto dell’invidia di molti fino al punto di far formulare contro di lui, primo pilota militare di colore al mondo, l’accusa di avere provocato un incidente durante il quale un aereo della sua squadriglia aveva colpito per errore una trincea italiana. L'accusa si dimostrò poi infondata, ma gli costò il posto in Aviazione.
Rientrato nelle truppe di terra con il grado di maggiore, assunse il comando del 67° Battaglione del 18° Reggimento Bersaglieri e, subito dopo, quello del XXIII Reparto d’assalto “Fiamme Cremisi” della neocostituita specialità Arditi.
Il 1º maggio 1918, con il grado di tenente colonnello, è al comando del I° battaglione del 242° Reggimento Fanteria della Brigata “Teramo”, dove si distinse per l’ardimento e la presenza sempre in prima linea con i suoi uomini che gli varranno, alla fine della guerra, e dopo aver combattuto anche in Albania nel 1920 quale comandante del IX Reparto d’Assalto (succedendo al futuro maresciallo Messe), un totale di quattro medaglie al valor militare, due d’argento e due di bronzo, e il titolo di Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia.
Nel dopoguerra Mondelli continua la sua carriera ma dopo tutte le battaglie combattute sul campo, il coraggioso bersagliere, aviatore e ardito, si trova a doverne affrontare ancora una, ma questa volta di natura legale. Il fascismo, infatti, vara la discriminazione razziale e gli viene negata la promozione a colonnello. La logica fascista prevedeva che “un italiano nero o meticcio non potesse dare ordini ad un italiano bianco”. Ma il regime aveva fatto i conti senza l’oste, e il nostro combattente non si arrende e intraprende un’azione legale contro il Ministero della Guerra, ovvero contro Mussolini, che però lo porta all’estromissione dai ruoli attivi con il collocamento nella Riserva.
A peggiorare la situazione conflittuale con il fascismo è la sua appartenenza alla massoneria, alla quale era stato iniziato nella Loggia Stretta Osservanza di Palermo nel 1912 e dove, nel 1919, aveva raggiunto il grado di Maestro. Riprenderà a frequentare la massoneria nel dopoguerra raggiungendo il 33° Grado del Rito Scozzese Antico e Accettato.
Con la fine del regime fascista l’ufficiale torna alla carica per far valere i suoi diritti e riesce a concludere la sua carriera militare con il grado di Generale di Corpo d’Armata Ruolo d’Onore.
Il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat gli conferisce motu proprio il titolo di Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.
Grande combattente e grande italiano Domenico Mondelli si spegne all'Ospedale Militare del Celio a Roma il 13 dicembre 1974, ma resterà nella storia del nostro Paese come esempio di coerenza e coraggio oltre che militare anche civile.




venerdì 7 giugno 2019

LA MUJER DE ARTILLERIA, LA GIOVANNA D'ARCO DI SPAGNA: AGOSTINA D'ARAGONA (1786-1857)

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Agustina Raimunda Maria Zaragoza y Domenech nacque a Reus, nella provincia di Tarragona, in una Spagna decadente, lontana dai fasti dell'immenso impero su cui aveva dominato per anni. Dopo che la sua famiglia si fu trasferita a Madrid, la ragazzina cominciò a mostrare un carattere estremamente vivace, tanto da zampettare fin dai tredici anni lungo le strade dei quartieri militari, attratta dalle armi e dalle divise dei soldati. Poiché la sua figura diventò molto famosa nella penisola Iberica, le storie sulla sua vita si sprecano e si contraddicono: sembra tuttavia avere più credito un suo matrimonio a sedici anni con un artigliere di nome Joan Roca Vila Seca, seguito dalla nascita del primo figlio di nome Eugenio e infine la rottura con il marito, partito al fronte allo scoppiare della guerra con la Francia, in data 2 maggio del 1808. Il suo obiettivo era proteggere il proprio bambino dagli orrori della guerra, ma il destino le si accanì contro.
Nell'estate del 1808, Agostina si trovava a Saragozza.
La città era una delle ultime città del nord della Spagna non ancora cadute nelle mani dei francesi, per questo un gran numero di profughi che fuggiva all'avanzare della Grand Armée aveva trovato rifugio tra le sue mura. A giugno, però, francesi si diressero verso Saragozza. Protetta da una piccola forza provinciale comandata dal Duca José de Palafox, la città non era nelle condizioni di scampare all'assedio del migliore esercito d'Europa.
Il 15 giugno i francesi presero d'assalto il Portillo, un antico bastione della città. A difenderlo vi era soltanto un insieme raffazzonato di vecchi cannoni e unità di moschettieri volontari.
Agostina, giunta sul bastione con un cesto di mele per sfamare gli artiglieri, vide i miliziani cadere sotto le baionette francesi, che avevano già scalato le mura. Le truppe spagnole non avevano né l'esperienza né il numero per tenere testa ai napoleonici: alla vista delle giubbe blu abbandonarono infatti le proprie posizioni, lasciando sugli spalti feriti e moribondi.
Solo una donna rimase ad affrontare i francesi.
Con gli invasori a pochi metri di distanza, Agostina raccimolò ogni briciola del proprio coraggio: scattò verso le postazioni difensive, caricò un cannone da sola e, quando ritenne che i francesi fossero abbastanza vicini, accese la miccia, liberando contro i nemici un devastante colpo a mitraglia.
A decine vennero fatti a pezzi dalla pioggia di detriti, piombo, rifiuti.
La vista di una piccola donna azionare un cannone con tale efficacia ispirò gli spagnoli in ritirata, i quali con alte grida tornarono subito nella mischia per proteggere quella santa lercia di polvere nera dai francesi.
Dopo una sanguinosa lotta, i soldati napoleonici abbandonarono l'assalto di Saragozza, da cui levarono l'assedio per alcune settimane, prima di ritornare ad attaccare. Alla fine, con un costo di vite umane elevato per entrambe le parti, Palafox fu costretto ad consegnare la città ai francesi. Era stata una sconfitta, ma l'azione di Agostina echeggiava già per tutta la penisola. Durante la prigionia sotto i francesi, la donna vide il figlio Eugenio morire per le privazioni. Dopo una fuga rocambolesca, Agostina divenne la leader di un gruppo di guerriglieri anti francesi, evitando però di farsi contagiare da quel fanatismo religioso che animava numerosi partigiani spagnoli, come da un eccessivo patriottismo. Piuttosto era una donna animata sia dal sentimento di giustiza nonché dalle condizioni in cui si era trovata, tali da costringerla a rivestire un ruolo maschile.
Senza dubbio, Agostina aveva però un debole per i cannoni.
Con la progressiva respinta delle forze napoleoniche, la donna venne assorbita nei ranghi istituzionali dell'armata alleata, sotto la guida del Duca di Wellington. Diventata l'unico ufficiale femminile dell'esercito alleato, Agostina scalò i ranghi fino ad essere insignita del titolo di capitano, oltre che diventare una vera e propria leggenda tra i soldati. Il suo effettivo contributo ad altre battaglie (Quali Vitoria, ormai esclusa dagli storici) è discusso, pare molto probabile che in realtà si limitasse più che altro alle gestione dei rifornimenti e all'addestramento delle reclute, compiti comunque non certo alla portata di chiunque. Al termine della guerra, quando i francesi furono finalmente respinti oltre i Pirenei, Agostina abbandonò l'esercito con il titolo di defensora de Zaragoza, insieme alla recompensa del valor y patriotismo.
Sposatasi con un dottore militare (aveva il pallino per i soldati), la donna passò pacificamente i restanti anni della propria vita nella città che aveva contribuito a difendere, Saragozza. Perfetta matrona come perfetta guerriera, Agostina venne descritta come una vecchietta autoritaria e gioviale, solita camminare lungo le strade della città con le sue medaglie ben in vista, mentre raccontava ai nipoti le imprese dell'armata spagnola.
Morì a 71 anni circondata dai parenti e tuttora riposa nella magnifica cappella di Nuestra Señora de Portillo.

giovedì 6 giugno 2019

FRA STORIA E MITO: L'EROICO ORAZIO COCLITE

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Secondo la tradizione nell'anno 509 a.C. i Romani cacciarono dall'Urbe il re Tarquinio il Superbo, esasperati dalle violenze e dalla tirannia esercitata dal monarca e la sua famiglia. Le fonti antiche riferiscono che l’episodio scatenante fu la violenza che il principe Tarquinio Sesto inflisse a Lucrezia, moglie del futuro console Lucio Tarquinio Collatino. Ma l’ex-monarca etrusco non aveva intenzione di abbandonare il suo trono tanto facilmente ed ottenne l’aiuto delle città di Veio e Tarquinia. Nel corso della sanguinosissima battaglia della Selva Arsia i romani riuscirono a respingere gli etruschi, ma Tarquinio non si diede ancora per vinto. Infatti riuscì a convincere il lucumone di Chiusi, Lars Porsenna, ad unirsi a lui nella spedizione di riconquista. Diverse fonti parlano di quest’ultimo personaggio come “re d’Etruria”, indicando se non altro la grande importanza che egli deteneva all'interno della Lega Etrusca. La minaccia era molto grave, e in città si presero tutti i provvedimenti possibili per prepararsi all'assedio imminente, predisponendo presidi armati nei punti nevralgici e accumulando provviste. Con un attacco a sorpresa i soldati di Porsenna riuscirono però ad impadronirsi del Gianicolo, per poi sciamare verso il ponte Sublicio, che una volta catturato avrebbe consentito loro di penetrare senza sforzo in città. I romani di guardia al ponte si persero d’animo e fuggirono, tutti tranne uno, Orazio Coclite, che incitò i compagni alla lotta con grande vigore. Radunatili, comandò loro di distruggere il ponte con qualsiasi mezzo, mentre lui, da solo, affrontava e teneva a bada i nemici. Tito Livio racconta che «Trattenuti dal senso dell'onore due restarono con lui: si trattava di Spurio Larcio e Tito Erminio, entrambi nobili per la nascita e per le imprese compiute. Fu con loro che egli sostenne per qualche tempo la prima pericolosissima ondata di Etruschi e le fasi più accese dello scontro. Poi, quando rimase in piedi solo un pezzo di ponte e quelli che lo stavano demolendo gli urlavano di ripiegare, costrinse anche loro a mettersi in salvo». Quando il ponte era ormai inutilizzabile, Orazio disse «O padre Tiberino, io ti prego solennemente di accogliere benignamente nella tua corrente questo soldato con le sue armi!» e si tuffò nel Tevere. Secondo Polibio, Orazio venne trascinato a fondo dal peso dell’armatura e annegò, mentre secondo Tito Livio riuscì a raggiungere la riva fra l’esultanza dei compagni. Per ricompensarlo e onorare il gesto con cui aveva salvato la città, i romani in seguito gli dedicarono una statua e si stabilì di donargli tanta terra quanta avrebbe potuto ararne in un giorno.
Secondo diversi storici romani di età imperiale le gesta di Orazio Coclite, Muzio Scevola e Clelia impressionarono a tal punto Porsenna che il re tolse l’assedio e concluse un trattato coi romani. Ma molto più probabilmente il re etrusco riuscì a soggiogare la città, non restaurandovi però i Tarquini e riservandole un trattamento tutto sommato mite. I romani sono noti per il loro uso di abbellire e glorificare il passato per non ammettere le sconfitte, proprio come era d’uso esaltare il nemico per giustificare le disfatte subite e per far risaltare ancora maggiormente le vittorie. Probabilmente Orazio Coclite esistette davvero e compì degli atti eroici, ma la sua storia venne mitizzata e strumentalizzata per celare quella che fu a tutti gli effetti una sconfitta per la giovane repubblica.

mercoledì 5 giugno 2019

L'ULTIMO CAVALIERE SENZA MACCHIA E SENZA PAURA: SER PIERRE TERRAIL DE BAYARD (1476-1524)

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Nato nel cuore dell'antica Alvernia francese, Pierre crebbe nel mito della cavalleria, ispirato dagli epici racconti di Roland e dei suoi paladini, che non cessavano da secoli di alimentare i sogni di tanti giovanotti europei. Sebbene fosse il rampollo di una famiglia di piccola nobiltà di poche speranze, Pierre si gettò anima e corpo nella carriera militare: il padre Aymon lo aveva infatti introdotto alle regole dell'ordine cavalleresco alle quali egli rimase fedele per tutta la vita. Grazie all'influenza dello zio Alleman arcivescovo di Grenoble, la cui diocesi comprendeva la Savoia, Pierre Terrail venne presentato al duca Carlo I.
Da lì ebbe inizio una sfavillante carriera, che vide il cavaliere discendere insieme al suo re nella grande campagna d'Italia, dove si distinse sia per l'abilità marziale che per il suo ferreo senso cavalleresco. Non partecipò mai a saccheggi, tenne in riga i mercenari ai suoi ordini e riuscì a farsi ben volere dalla popolazione italiana, tra cui la figura del Cavalier Baiardo divenne sinonimo di vero gentiluomo.
Il ser combatté un'infinità di battaglie, sia sconfitte che vittorie, senza mai vacillare nella rettitudine che lo contraddistingueva. Partecipò alla famosa disfida di Barletta, dove venne riconosciuto come il migliore tra i ventidue duellanti e soprattutto il più "sportivo", nonostante la sconfitta per mano degli schermidori italiani. Venne consacrato alla fama dei posteri con l'eroica azione del ponte di Garigliano: gli spagnoli, approfittando delle nebbie invernali e della divisione dell'esercito francese, il 28 dicembre del 1503, gettarono un ponte di barche oltre il fiume Garigliano, così da cogliere di sorpresa il campo francese. La rotta che ne seguì sarebbe stata catastrofica per l'esercito di Luigi XII: le sentinelle si accorsero troppo tardi dell'attacco e i comandanti non ebbero il tempo di organizzare un'efficace difesa, incalzati dai cavalleggeri italiani e spagnoli. Pierre Terrail de Bayard sbarrò allora per mezz'ora il passaggio dell'esercito spagnolo praticamente da solo, difendendo uno stretto ponte che attraversava il fiume e permettendo la ritirata dell'armata.
Tale impresa contribuì in modo significativo alla sua fama di cavaliere "senza macchia e senza paura", tanto che lo stesso papa Giulio II cercò invano di assicurarsi i suoi servigi, inviti sempre rifiutati dal milite, fedele alla corona di Francia.
Insignito cavaliere dell'ordine di San Michele dopo lo sfolgorante assedio di Mezieres, Bayard trovò nella persona del re Francesco I un sovrano dal medesimo entusiasmo cavalleresco, sotto le cui insegne marciò per l'ennesima campagna in Italia.
Ma i tempi erano ormai cambiati. Le fanterie armate di picche e alabarde, l'artiglieria di sagri e falconi, le formazioni di archibugieri stavano trasformando il mondo della guerra in Europa, ormai sempre più lontana dalle epopee che Bayard ascoltava incantato da piccolo e che raccontava ancora alle sue figlie. Eppure il cavaliere riusciva ancora a risaltare quale fulgido esempio di onore e coraggio, nonostante gli scoppi di polvere nera che ammorbavano i campi di battaglia. Nella sua ultima campagna strappò altre vittorie per il giovane re: respinse la cavalleria spagnola più volte nella ritirata da Abbiategrasso, disperse la fanteria lanzichenecca vogliosa di saccheggio, protesse numerosi borghi dall'avanzata imperiale. Sempre fedele agli ordini spesso insensati dei suoi superiori, Bayard incontrò infine il proprio destino a Romagnano.
Mentre l'ammiraglio Bonnivet accorreva per stroncare un'offensiva imperiale, si era trovato esposto al fuoco degli archibugieri spagnoli e venne trasportato dai suoi attendenti lontano dal campo di battaglia. Poiché l'armata era senza un leader, il Baiardo ordinò ai suoi uomini d'arme di caricare, al fine di coprire la sempre più difficoltosa ritirata. Una volta respinti i cavalieri imperiali, un colpo di archibugio lo colpì alla schiena. Non fu spada, né fu lancia a sconfiggere il valoroso guerriero, bensì proprio l'artificio moderno sconosciuto agli immortali cavalieri del mito, che addirittura lo colpì alle spalle, in sfregio a ogni regola che la cavalleria imponeva.
Bayard venne così sbalzato dal cavallo, la schiena spezzata dal proiettile, ma ebbe la forza di chiedere ai suoi servitori di adagiarlo contro un albero, il viso rivolto per l'ultima volta alla guerra a cui aveva consacrato la propria vita.
Quando l'armata imperiale raggiunse il moribondo, si narra che ogni soldato presente si tolse il morione e nella notte sia francesi che imperiali vegliarono per la morte non di un nobile titolato, bensì di un valoroso. Agli occhi di quegli uomini il valore, infatti, non era suddito di alcun re, per quanto potesse essere nemico.
Baiardo venne sepolto a fianco della Chiesetta di San Martino di Breclema, a Romagnano Sesia, dove ancora riposa in un luogo sconosciuto, umile e ossequioso come il cavaliere fu in vita.




martedì 4 giugno 2019

ENRICO DANDOLO: UN NOVANTASEIENNE ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

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Enrico nacque dalla nobile famiglia dei Dandoli nel 1107 circa a Venezia. Trascorse la prima fase della lunghissima vita ricoprendo incarichi pubblici, contraendo vantaggiosi accordi per la Serenissima e la sua famiglia ed espandendo il suo potere e la sua influenza. Nel corso di una missione diplomatica a Costantinopoli iniziò a perdere l'uso della vista, ma ciò non lo fermò. Alla morte del doge Orio Mastropiero, Enrico si recò da un buon numero di elettori chiedendo un singolo voto simbolico per sé stesso, a titolo onorifico. Alla fine i voti "simbolici" furono così tanti che il 21 giugno 1192 l'85enne venne eletto come 41° doge. Durante la prima fase del dogato il Dandolo strinse accordi con le varie potenze confinanti per poter avere mano libera e muovere contro Zara, la città che contestava il dominio adriatico di Venezia. Ma fu solo nel 1201, con la proclamazione della IV crociata che si presentò l'occasione giusta. Il doge si accordò coi crociati di traghettarli in Terra Santa in cambio dei loro servigi contro Zara, Trieste e Muggia. I soldati vittoriosi furono raggiunti da Alessio IV Comeno, principe bizantino spodestato e in cerca di supporto. I soldati latini dunque si recarono a Costantinopoli e posero l'assedio alla città. Lo scontro fu duro e veneziani, latini, greci e variaghi lottarono aspramente per molti giorni. Così il cronista Goffredo di Villehardouin ricorda il Dandolo, che ormai cieco e quasi centenario guidava le sue truppe:
«Stava ritto tutto armato a prua della sua galera, con davanti lo stendardo di san Marco, ordinando a gran voce ai marinai di portarlo prestamente a terra, o li avrebbe puniti a dovere; sicché quelli approdarono subito, e sbarcarono con lo stendardo. Tutti i veneziani seguirono il suo esempio: quelli che stavano nei trasporti dei cavalli uscirono all'aperto, e quelli delle navi grandi salirono sulle barche e presero terra come meglio poterono. »
La città fu presa, ma dopo alcune brevi lotte intestine fra imperatori greci, i latini li dichiararono decaduti e reclamarono per sé l'Impero Romano d'Oriente. La piccola Venezia poté reclamare tre ottavi di tale bottino, gettando così le basi per un impero levantino che nel corso dei secoli avrebbe portato ricchezze, gloria e onori alla città di San Marco.
Il doge rimase a Costantinopoli per combattere i bulgari e i dissidenti greci e consolidare le posizioni veneziane. Infine la morte colse anche questo straordinario vecchio, portandoselo via nel maggio del 1205. Venne sepolto nella basilica di Santa Sofia, nei luoghi riservati agli imperatori.



lunedì 3 giugno 2019

IL PRIMO UOMO A FARE IL GIRO DEL MONDO?

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Secondo la tradizione l'esploratore portoghese Juan Sebastiàn Elcano, che alla morte di Ferdinando Magellano prese il comando della spedizione, fu il primo uomo a circumnavigare il globo. Ma secondo lo scrittore Stefan Zweig il primo potrebbe essere stato il malese Enrique di Malacca. Costui era stato preso come schiavo da Magellano nel 1511 durante la presa di Malacca, ed era stato portato nel viaggio del 1519 per le sua capacità di parlare diverse lingue del sud-est asiatico. Alla morte dell'esploratore sarebbe dovuto tornare un uomo libero, come affermava il testamento del portoghese, ma le sue ultime volontà non vennero rispettate, probabilmente in quanto un interprete era indispensabile. Per questo il malese decise di abbandonare la ciurma e tradire gli europei: durante un banchetto offerto dal Rajah Humabon sull'isola di Cebu, tutti gli ospiti furono uccisi a parte Enrique, che probabilmente tramò contro i portoghesi. Non si sa se in seguito il malese riuscisse a percorrere i 2500 km che lo superavano dalla natia Sumatra, facendone il primo circumnavigatore della storia, quello che è certo è che probabilmente non sapremo mai chi di preciso possa vantare un tale primato nella storia dell'umanità.



domenica 2 giugno 2019

ULUC ALI: UN CORSARO CALABRESE AL SERVIZIO DEL GRAN SULTANO DI INSTANBUL

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Alle Castella, in provincia di Crotone, sorge ancora il monumento commemorativo di Giovan Dionigi Galeni, nato in quel borgo nel lontano 1519. Divenne tristemente famoso nel mediterraneo come Alì il Rinnegato, poi storpiato dagli italiani in Uluccialì, Uccialì e addirittura Occhialì. Fatto prigioniero e messo al remo durante una scorreria di Khayr Adin Barbarossa, il giovane divenne musulmano per poter vendicare un'offesa inflittagli da un napoletano nelle medesime condizioni, dunque, come tantissimi europei rinnegati dell'epoca, fece carriera nella società multietnica dell'impero Ottomano. Il suo talento quale corsaro lo trasformò nello spauracchio del Mediterraneo: assalì decine di galere cristiane, saccheggiò numerosi paesi della sua terra natia, arrivò quasi a catturare il duca Emanuele Filiberto di Savoia durante la battaglia di Gerba, fino a subentrare al grande Dragut nel comando della flotta Algerina, venendo insignito del titolo di Beylerbey di Algeri (1568).
Ma il dominio turco dei mari era giunto a un punto di non ritorno: a Lepanto, nel 1571, le forze combinate della lega santa (Venezia, Impero Spagnolo, Papato) annientarono la flotta riunita del Sultano, uccidendone tutti i comandanti. Tranne uno: Uluc Alì fu così abile da riuscire a fuggire a bordo della sua capitana, superando il fianco sfilacciato di Gian Andrea Doria di Genova. Nel disastro, Uccialì riuscì pure a guadagnarci: divenne il nuovo Kapudan Pascià della flotta ottomana, tanto da sfidare (seppur con scarso successo) per molti anni le flotte Europee. Riuscì infine a strappare Tunisi alle armate imperiali, per poi spegnersi nel suo palazzo sulla collina di Top-Hana, vicino a Instanbul. Lì liberò i suoi schiavi di origine italiana in un borgo conosciuto come Piccola Calabria, fatto costruire a sue spese.
Secondo alcune voci non confermate, in punto di morte sarebbe tornato alla fede cristiana, sebbene durante la vita avrebbe sempre preferito la fede islamica, in quell'epoca molto più libera e tollerante del cristianesimo.


sabato 1 giugno 2019

BENVENUTO CELLINI: ARCHIBUGIERE AL SERVIZIO DEL PAPATO, BOMBARDIERE, ASSASSINO.

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Le opere del famoso orafo di Firenze, nato nel 1500 e morto nel 1571, sono uno spettacolo conosciuto a molti, un vivido simbolo del magnifico rinascimento italiano. Eppure l'autore Benvenuto aveva ben poco dell'artista illuminato. Lo descriveva così Giuseppe Baretti: "(...) animoso come un granatiere francese, vendicativo come una vipera, superstizioso in sommo grado, e pieno di bizzarria e di capricci; galante in un crocchio di amici, ma poco suscettibile di tenera amicizia; lascivo anzi che casto; un poco traditore senza credersi tale; un poco invidioso e maligno; millantatore e vano, senza sospettarsi tale; senza cirimonie e senza affettazione; con una dose di matto non mediocre, accompagnata da ferma fiducia d'essere molto savio, circospetto e prudente (...)".
Il suo temperamento bellicoso risultò provvidenziale durante il sacco di Roma, nel quale Benvenuto partecipò tra le fila dei difensori, grazie alla sua esperienza nell'uso dell'archibugio e dello scoppietto. Oltre a fornire agli storici un vivido racconto di quei giorni terribili, Benvenuto, insieme ad altri sei tiratori, si vantò dell'uccisione del comandante imperiale Carlo di Borbone, colpito da un proiettile di archibugio mentre armeggiava con una scala durante l'assalto delle mura. L'orafo riuscì poi a riparare in Castel Sant'Angelo, dove guidò il fuoco dell'artiglieria senza farsi troppi scrupoli al contrario dei superiori. Sebbene ci fossero numerosissimi civili nella linea di fuoco, vi è da dire che fu proprio l'artiglieria a salvare le numerose persone rifugiatesi nella fortezza, nonché lo stesso papa Clemente VII.
Non pago degli orrori a cui assistete nel sacco di Roma, il sanguigno Cellini si macchiò di diversi omicidi, in particolare contro orafi rivali, riuscendo sempre a farla franca grazie alle amicizie con i potenti e al suo indiscutibile genio artistico. Per alcuni tratti ricorda Caravaggio, altrettanto geniale quanto meno fortunato. Un giudizio su questo personaggio eclettico del 1500 è dato dal critico letterario Cordé: "Benvenuto finì per diventare un modello, anzi un eroe e forse anche un mito: era un po', per intendersi, il rappresentante di un'Italia dei pugnali, dei veleni e degli intrighi quale poté vagheggiarla uno spirito lucidissimo eppur romanticamente inquieto come Stendhal".



lunedì 27 maggio 2019

KHAIR ED-DIN BARBAROSSA: PROTETTORE DELLA FEDE E FLAGELLO DEL MEDITERRANEO (1476-1546)

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L'eroe nazionale turco, fondatore della marina da guerra ottomana, invincibile ammiraglio di Suleyman e dominatore del Mediterraneo nacque a Mitilene (isola di Lesbo) nel 1476 da una famiglia di origine greco/albanese. Fu il primogenito della coppia, Aruc, ad iniziare l'attività piratesca nelle acque dell'Egeo con alterne fortune. Infatti, dopo essersi liberato dai cavalieri di Rodi che l'avano imprigionato e messo ai remi, raggiunse le coste dell'Africa Settentrionale, portando con sé il fratello Khizr, il futuro ammiraglio. La fama dei fratelli Barbarossa, così chiamati per la barba fulva di Aruc, crebbe insieme alle navi e agli uomini ai loro ordini. La cattura del porto di Djidjelli, fra Tunisi e Algeri, fu il primo passo della conquista della costa nord-africana. Caddero anche Cherchell e Algeri, ma non la fortezza del Penon, eretta dagli spagnoli sull'isola davanti alla città per controllare i traffici marini. Alcune città come Ténés e Tlemcen caddero, mentre altre, come Bugia, resistettero ai loro attacchi. Riconoscendo la difficoltà di contrastare sia le popolazioni locali sia gli spagnoli da solo, nel 1517 Aruc aveva deciso di collegare i suoi domini all'Impero turco, ricevendo dal sultano Selim I il titolo di beylerbeyi (capo dei capi) di Algeri, oltre alle truppe necessarie per reprimere una rivolta e respingere un attacco spagnolo.
Ma proprio nel corso di uno scontro con gli spagnoli, Aruc venne ucciso nel 1518. In memoria del fratello, Khizr iniziò a tingersi la barba di rosso con l'henné, raccolse la sua eredità e si apprestò a diventare il vero e unico Barbarossa.
Nonostante i giannizzeri al suo servizio, Khizr venne sconfitto da un esercito hafsida e dovette abbandonare Algeri, che riconquistò nel giro di pochi anni, dopo aver depredato le coste della Sicilia e del Meridione d'Italia. Fu a quel punto che ricevette il titolo di Khair ed-Din, ovvero "benefattore dell'Islam". Le sue scorribande terrorizzarono la Francia, la Spagna, l'Italia e chiunque dovesse navigare attraverso il Mediterraneo Occidentale. Nel 1526 una sua razzia in Toscana fu sventata dall'ammiraglio genovese Andrea Doria, che divenne la sua nemesi, e con il quale si sarebbe scontrato più volte.
Tre anni dopo, mentre i turchi si preparavano ad assediare Vienna per la prima volta, il Protettore della fede riprese l'offensiva contro le piazzeforti spagnole in Africa. Rase al suolo anche la fortezza del Penon, nonostante l'eroica difesa dell'esigua guarnigione spagnola, trasformando Algeri nella capitale della guerra di corsa nel Mediterraneo da lì fino ai tre secoli successivi. Le sue imprese, che annoveravano decine di navi cristiane catturate o affondate, la devastazione di innumerevoli città, porti e villaggi, il saccheggio di un bottino immenso e il successo nel contrastare spagnoli e genovesi gli procurò l'attenzione di Ibrahim, il visir del sultano Suleyman, grazie al quale ricevette la nomina di kapudan-i dayra, capitano del mare, ovvero comandante supremo della flotta ottomana. Dopo aver riorganizzato e potenziato la flotta del sultano, seminò il panico sul litorale occidentale della Penisola, arrivando a sfidare il rivale Andrea Doria sfilando quasi davanti al suo palazzo. Ma il suo obbiettivo era Tunisi, la cui caduta allarmò l'imperatore Carlo V, in quanto il porto era in una posizione strategica fondamentale per il controllo del canale di Sicilia. La poderosa flotta cristiana guidata dal Doria riconquistò la città e la consegnò al suo precedente signore, Mulay Hasan, mentre il Barbarossa si sottraeva allo scontro e ne approfittava per devastare i possedimenti nemici.
Lasciata Algeri nelle mani del suo pupillo di origini sarde Hassan Agha, ritornò nel Mediterraneo Orientale, dove a fare le spese delle sue incursioni furono i possedimenti veneziani, che caddero o vennero devastati dai suoi uomini. A causa di queste perdite, Venezia si alleò col papa Paolo III, che formò una Lega Santa per contrastare l'espansione musulmana. Le navi spagnole, pontificie e veneziane al comando di Andrea Doria ebbero però la peggio nella battaglia di Prevesa (1538), la più celebrata vittoria del Barbarossa. L'ammiraglio poté così continuare a saccheggiare e conquistare isole e fortezze spagnole, genovesi e veneziane, apparentemente invincibile. Non potendolo convincere ad unirsi a lui, Carlo V intraprese una spedizione contro Algeri nel 1541, guidata da Andrea Doria e Hernàn Cortés, che inutilmente provarono a convincere il sovrano a desistere dall'impresa. Infatti la stagione era pessima e l'attacco fallì. Ancora scosso dalla sconfitta, l'imperatore del Sacro Romano Impero si vide dichiarare guerra dallo storico rivale Francesco I di Francia, alleatosi col Turco.
Il comando dell'immensa flotta fu affidata al Barbarossa che risalì le coste imponendo riscatti e saccheggiando le città che non si piegavano alla sua volontà, come Reggio Calabria, salvata dall'invaghimento che prese l'ammiraglio per la giovane figlia del governatore. La flotta turca dunque assaltò Nizza,ma l'attacco si risolse in una razzia della città, mentre la fortezza resistette agli assalti della flotta franco-turca. Dopo aver svernato a Tolone e inviato squadre per razziare le coste spagnole, sulla via per tornare a Istanbul arrivò a minacciare Genova stessa, razziò le coste sarde, toscane, liguri, laziali e siciliane. Il vecchio ammiraglio, tornato nella capitale nel 1545, costruì un sontuoso palazzo e si ritirò per riposare e dettare le proprie memorie, cinque volumi noti come Gazavat-i Hayreddin Paşa.
Morì nel suo palazzo l'anno successivo, stroncato da una violente febbre.
La sua memoria divenne tanto venerata che ancora agli inizi del Seicento nessun viaggio di mare veniva intrapreso da Istanbul senza prima visitare la sua tomba e recitarvi la fatiha, preghiera propiziatoria del Corano.

martedì 14 maggio 2019

TADEUSZ KOSCIUSKZO: EROE DI DUE MONDI

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Il futuro eroe nazionale di Polonia, Lituania, Bielorussia e Stati Uniti nacque il 4 febbraio del 1746 in un maniero a Mieračoŭščyna, nel voivodato di Nowogródek. Ultimo dei figli di Ludwik Tadeusz Kościuszko, apparteneva a una famiglia della slazchta (nobiltà) di modesta ricchezza. Battezzato come Andrzej Tadeusz Bonawentura sia dalla Chiesa Cattolica che da quella Ortodossa, la sua famiglia era di origini lituane-rutene ma parlava polacco e si identificava con la cultura polacca. Nel 1755 iniziò a frequentare la scuola a Lyubeshiv, ma non riuscì a terminare gli studi a causa delle difficoltà economiche della famiglia e alla morte del padre, avvenuta nel 1758. Ma grazie al patrocinio della famiglia Czartoryski, nel 1765 il giovane poté entrare nel Corpo dei Cadetti, dove studiò arti liberali e militari. L'anno successivo si diplomò ricevendo il ragno di chorąży, circa equivalente al rango di tenente. Dopo due anni passati come studenti istruttore, venne promosso al rango di capitano. Nello stesso 1768 scoppiò la guerra civile nel Commonwealth Polacco-lituano, quando l'associazione di nobili nota come la Confederazione di Bar insorse contro il sovrano Stanisław August Poniatowskj. Trovandosi scisso fra la fedeltà dovuta al re e l'affetto per il fratello Jòzef che invece supportava gli insorti, Tadeusz decise di lasciare il paese e raggiunse Parigi con l'amico Aleksander Orłowski (che diventerà un famoso artista). Essendo stranieri, ai due venne proibito di entrare nelle accademie militari francesi, così che i due entrarono nell'Accademia Reale di Scultura e Disegno. Tadeusz tuttavia non smise di studiare gli argomenti militari, tramite l'assidua frequentazione delle librerie delle accademie militari. Mentre studiava arte (dipingerà per tutta la vita) e arte militare, il giovane venne molto colpito dalla cultura dell'Illuminismo, soprattutto dalle teorie fisiocratiche. Nel 1772 lo raggiunse la notizia dell'avvenuta Prima Spartizione della Polonia, con la quale Austria, Russia e Prussia annetterono consistenti territori polacchi e aumentarono la propria ingerenza nei rimanenti stati lituano-polacchi. Due anni dopo Tadeusz tornò a casa, per scoprire che il fratello Jòzef aveva ridotto la famiglia sul lastrico, così che il giovane non poteva comprarsi un posto da ufficiale nell'esercito. Dunque entrò alle dipendenze del voivoda (governatore) e atamano Józef Sylwester Sosnowski, per poi innamorarsi della figlia dello stesso. Ma la differenza fra i due era troppo grande, e Tadeusz dopo essersi visto rifiutato come sposo dal padre e battuto dai servi del governatore, decise di emigrare. Da questo episodio Kościuszko sviluppò una forte insofferenza per le differenze di classe. Dopo essere stato rifiutato dall'esercito sassone, decise di tornare a Parigi, dove apprese dell'insurrezione dei coloni americani nei confronti della corona britannica. Influenzato dalla positiva propaganda francese, naturalmente di ispirazioni rivoluzionarie e convinto sostenitore dei diritti umani, l'ufficiale polacco il 30 agosto del 1776 si mise a disposizione del Secondo Congresso Continentale. Nominato ingegnere, il suo primo incarico consistette nel fortificare le rive del fiume Delaware per proteggere Philadelphia. La primavera dell'anno successivo era al confine col Canada, a forte Ticonderoga, una delle più possenti fortezze sul suolo americano. Il suo consiglio di piazzare una batteria su punto elevato sovrastante il forte fu ignorato dal comandante della guarnigione. Quando gli attaccanti inglesi arrivarono intuirono la bontà del punto e vi piazzarono una batteria, costringendo i difensori ad abbandonare la fortezza prima che cominciasse l'assedio vero e proprio. Kościuszko salvò le forze continentali, in inferiorità numerica e esauste, rallentando gli inseguitori col taglio di alberi, la distruzione di ponti e l'ostruzione delle vie di comunicazione. Incaricato poi di trovare e fortificare il punto più favorevole per ingaggiare le forze del generale Burgoyne, Kościuszko fu decisivo per la vittoria americana a Saratoga.
Rimase poi per due anni a West Point, New York, realizzando delle fortificazioni innovative prima di richiedere di tornare al fronte, cosa che avvenne nell'ottobre del 1780. Pochi mesi dopo le chiatte, le fortificazioni, le opere di esplorazione ed intelligence dell'ufficiale polacco si riveleranno fondamentali per salvare l'Armata del Sud dal generale Cornwallis durante la famosa "Corsa verso il [fiume] Dan". Grazie al suo contributo strategico, le forze del Congresso poterono dare avvio alla riconquista della Carolina del Sud. Durante i due anni successivi partecipò a diversi piccoli scontri e assedi, ricevendo una ferita di baionetta e quasi venendo ucciso nella battaglia di James Island. Nonostante i grandi meriti acquisiti presso i neonati Stati Uniti, Kościuszko dovette tornare in Europa nel 1784 senza essere riuscito a ricevere il giusto salario dovutogli dal governo americano. Le terre di famiglia erano in stato di abbandono a causa della scellerata amministrazione del fratello, ma grazie all'aiuto della sorella Anna riuscì ad ottenere parte dei terreni per sé. Rinunciando a un'ottima e sicura fonte di guadagno, limitò le corvée a due soli giorni per i contadini maschi, abolendole per le donne. Il nobile si avvicinò al partito liberale, supportandolo durante la Grande Sejim (parlamento) del 1788-92. Grazie all'ascesa del Partito Patriotico, che propugnava le moderne idee ispiratrici della Rivoluzione Francese, Kościuszko ottenne la carica (e lo stipendio) di maggiore generale del riformato esercito polacco-lituano. La Costituzione Polacca di Maggio, promulgata nel 1791, deluse parzialmente le aspettative di Tadeusz, in quanto manteneva la monarchia e faceva poco per migliorare la situazione di servi ed ebrei. Ma proprio questo documento scatenò la reazione dei magnati riuniti nella Confederazione di Targowica, che invocò l'aiuto della zarina Caterina II. Circa 37.000 polacchi inesperti si trovarono a difendere il proprio paese da 100.000 esperti soldati russi, divisi in tre armate che penetrarono nel paese. A Kościuszko fu assegnato il comando di una delle tre divisioni che componevano l'Esercito della Corona, ma il suo consiglio di tenere unito l'esercito per affrontare una ad una le armate russe fu ignorato. Dopo la vittoriosa battaglia di Zieleńce, a Kościuszko venne ordinato di difendere il fianco meridionale del fronte, e grazie alla sua leadership nella battaglia di Dubienka 5.300 polacchi con 10 cannoni respinsero 25.000 russi, che lasciarono 4.000 caduti sul campo. Per questa vittoria Tadeusz ricevette la più alta onorificenza polacca, la croce Virtuti Militari, e la promozione a generale di corpo d'armata. Ma con gli onori giunsero anche le cattive notizie: il re Stanisław August Poniatowski aveva deciso di capitolare ed entrare nella Confederazione di Targowica. Deluso e amareggiato, il comandante che era diventato in breve tempo famoso come patriota e sostenitore delle idee progressiste, dovette lasciare il suo paese in quanto era diventato un bersaglio per gli occupanti. A Lipsia si formò una piccola comunità di rifugiati polacchi impegnata a progettare un'insurrezione, con l'eventuale aiuto della Francia rivoluzionaria. Il 23 gennaio del 1793 Prussia e Russia decretarono la Seconda Spartizione della Polonia, riducendo il paese alla misera ombra di quello che era stato un tempo. I preparativi per la ribellione fremevano, ma la data dell'insurrezione dovette essere anticipata per evitare che gli agenti zaristi troncassero la rivolta sul nascere. Sfruttando l'assenza della guarnigione russa, il 24 marzo 1794 Kościuszko occupò la città, assunse il titolo di comandante in capo e proclamò la mobilitazione generale per cacciare i russi. Questi riuscirono a radunare una piccola armata per difendere Varsavia dai circa 6.000 uomini di Kościuszko, contro i quali si scontrarono nella battaglia di Racławice. Lo scontro fu deciso dalla carica degli kosynierzy, i contadini volontari che armati di falci e guidati da Kościuszko in persona, al grido di "Per Dio e la madrepatria!" calarono sui russi. Ma questi tornarono con forze maggiori, rinforzate dal supporto prussiano. Nella battaglia di Szczekociny 27.000 prusso-russi, supportati dal fuoco di 124 cannoni misero in rotta i 15.000 ribelli polacchi, armati molto peggio. L'eroe contadino Wojciech Bartosz Głowacki trovò la morte, e Kościuszko stesso venne ferito gravemente. La speranza sembrò affievolirsi quando il comandante venne nuovamente ferito, e non essendosi potuto suicidare, catturato nella battaglia di Maciejowice. L'Insurrezione di Kościuszko si concluse nel sangue quando l'esercito russo dopo aver sconfitto i difensori di Varsavia massacrò 20.000 civili, contravvenendo agli ordini del generale Suvorov. La seguente Terza Spartizione della Polonia sancì la fine dello stato polacco per i successivi 123 anni. Il comandante sconfitto rimase prigioniero per due anni a San Pietroburgo, fino a quando il nuovo zar Paolo I lo liberò, e, in cambio del giuramento di fedeltà, liberò anche 20.000 prigionieri polacchi. Dal 1797 al 1798 visse in America, dove liberò gli schiavi delle sue tenute e gli diede i mezzi per educarsi. La speranza che la Francia di Napoleone avrebbe supportato la causa polacca per indebolire il nemico russo lo riportò in Europa, dove si unì alla Società dei Repubblicani Polacchi. Ma l'incontro con Napoleone non portò ad alcuno sviluppo, in quanto Tadeusz non si fidava dell'ambizioso corso e vide la creazione del Granducato di Varsavia come un espediente. Amareggiato e provato dalle ferite, si ritirò dalla politica attiva. Dopo la caduta di Napoleone, lo zar Alessandro I cercò il suo supporto per creare uno stato polacco alleato e satellite della Russia, ma quando il vecchio patriota seppe che il nuovo stato sarebbe risultato perfino più piccolo del Granducato di Varsavia lo definì "una barzelletta" e rifiutò di aiutare i russi. Dopo aver provato ad emancipare i servi nelle sue tenute in Polonia, si ritirò in esilio volontario a Solothurn, in Svizzera. Qui morì il 15 ottobre 1817, a 71 anni, a causa di una caduta da cavallo. Venne seppellito nella cattedrale del Wawel, entrando a buon diritto nel pantheon degli eroi nazionali polacchi. Gli Stati Uniti non avrebbero dimenticato il loro debito di gratitudine nei suoi confronti, e nel momento del bisogno, sarebbero accorsi in aiuto dei loro fratelli polacchi...



lunedì 13 maggio 2019

MORIRE PER LA PROPRIA CITTA': PIETRO MICCA 1677-1706

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L'ennesimo conflitto infuriava per l'Europa.
La guerra vedeva questa volta schierati da una parte l'Inghilterra, l'Impero Asburgico, il Portogallo, la Danimarca e i Paesi Bassi, dall'altra la Francia e la Spagna, il cui inetto re Carlo II aveva indicato nel testamento come successore il nipote di Luigi XIV, Filippo di Borbone. 
In tutto ciò Il Ducato di Savoia si trovava tra la Francia ed il milanese, che era nelle mani della Spagna e costituiva il naturale corridoio di collegamento tra i due alleati, per cui Luigi XIV impose al duca Vittorio Amedeo II l'alleanza con i franco-ispanici.
Ma Vittorio Amedeo II, sostenuto dal cugino Eugenio di Savoia-Carignano, conte di Soissons e gran condottiero delle truppe imperiali, ebbe l'intuizione che questa volta la partita principale tra la Francia e l'Impero si sarebbe giocata in Italia e non più nelle Fiandre o in Lorena. Sulla base di questa sicurezza strinse alleanza con gli Asburgo, gli unici che avrebbero potuto garantire la reale indipendenza dello Stato sabaudo.
Strette tra due fuochi, però, le terre sabaude vennero circondate e attaccate da tre eserciti: perdute Susa, Vercelli, Chivasso, Ivrea e Nizza (1704), a resistere rimaneva solo la Cittadella di Torino, fortificazione fatta erigere dal duca Emanuele Filiberto I di Savoia circa centoquarant'anni prima, ovvero intorno alla metà del XVI secolo.
Protetta da ottime gallerie di contromina, scavate al di sotto degli spalti della cittadella, nelle quali la compagnia minatori del battaglione d'artiglieria, formata da 2 ufficiali, 2 sergenti, 3 caporali e 46 minatori con, in appoggio, 350 manovali (addetti agli scavi) e 6 sorveglianti, la fortezza si garantiva il controllo del sottosuolo e la collocazione delle cariche di esplosivo destinate a frustrare i lavori degli assedianti.
All'interno della cittadella invece rivestiva particolare importanza il cisternone, un edificio circolare situato al centro della piazza d'armi. Questo pozzo assicurava una costante riserva d'acqua che prendeva rifornimento dalla falda freatica sottostante. I franco spagnoli sapevano bene, dunque, che l'unico modo per penetrare all'interno del fortilizio era ritorcere il controllo del sottosuolo contro i difensori.
Era proprio tra questi che militava il giovane Pierre Micha, conosciuto come Pietro Micca.
Si sa poco sulla sua persona, tranne che proveniva da famiglia modesta. Nacque dal matrimonio tra il muratore Giacomo Micca, nativo di Sagliano, (oggi Sagliano Micca), con Anna Martinazzo, originaria della frazione Riabella di San Paolo Cervo. Il 29 ottobre 1704 aveva sposato Maria Caterina Bonino, e ne ebbe il figlio Giacomo Antonio (1706-1803). Pietro Micca lavorava inizialmente come muratore.
Rimasto disoccupato, si arruolò nella compagnia minatori nell'esercito sabaudo, allora impegnato nel difficile conflitto contro la Francia, così da finire a lottare in quel dedalo di cunicoli così importante per la difesa di Torino.
Nella notte tra il 29 e il 30 agosto 1706, degli incursori nemici riuscirono a entrare in una delle gallerie sotterranee della Cittadella, uccidendo le sentinelle e cercando di sfondare una delle porte che conducevano all'interno. Ciò sarebbe stato un sicuro disastro per i piemontesi: anche se fossero stati successivamente respinti, i francesi potevano raggiungere il cisternone e renderlo inutilizzabile, segnando la fine per i difensori. Pietro Micca, i cui commilitoni chiamavano Passepartout per l'abilità di infiltrarsi e "rubacchiare" era di guardia ad una delle porte insieme ad un commilitone.
I due soldati sentirono dei colpi di arma da fuoco e compresero che un gran numero di nemici stava per raggiungerli. Certi che non avrebbero resistito a lungo pensarono di far scoppiare della polvere da sparo (un barilotto da 20 chili posto in un anfratto della galleria chiamata capitale alta) allo scopo di provocare il crollo della galleria e così non consentire il passaggio alle truppe nemiche.
Tuttavia, non potendo utilizzare una miccia lunga perché avrebbe impiegato troppo tempo per far esplodere le polveri, Micca decise di impiegare una miccia corta, conscio del rischio che avrebbe corso. Senza altro pensare, allontanò il compagno con una frase che sarebbe diventata storica: «Va via, It ses pì long che na giornà sensa pan!» («Alzati, che sei più lungo d'una giornata senza pane»).
Così, mentre il compagno fuggiva lungo le galleria, senza esitare il soldato diede fuoco alle polveri.
Micca venne travolto dall'esplosione e il corpo fu scaraventato a una decina di metri di distanza. I francesi sopravvissuti allo scoppio, ormai giunti alla porta trovarono davanti a sé un muro franato di pietra e furono costretti a desistere nell'attacco.
Pietro, con il suo sacrificio, aveva salvato Torino.
Poiché stretti nell'assedio, il soldato venne sepolto in una tomba comune, ma la sua fama già riecheggiava tra i difensori, che furono ispirati dal suo gesto disinteressato.
Quando, il 7 settembre 1706, i francesi vennero respinti, frotte di miliziani e regolari inneggiavano al nome del buon minatore, affiancandolo a quello dei nobili comandanti, dei santi e pure a Dio. In una supplica inviata al duca Vittorio Amedeo II il 26 febbraio 1707, la vedova di Pietro Micca chiese una pensione. Nella richiesta è scritto che il marito eseguì un ordine del colonnello Giuseppe Amico di Castellalfero, magari offrendosi volontario «invitato dalla generosità del suo animo a portarsi a dare il fuoco a detta mina, nonostante l'evidente pericolo di sua vita». La vedova Maria Bonino ottenne così un vitalizio di due pani al giorno e si risposò nel 1709 con un certo Lorenzo Pavanello, da cui ebbe il figlio Francesco.
Tutt'ora, oltre a tantissimi luoghi rinominati con il nome Micca, la statua del soldato minatore svetta davanti alle mura di Torino, una sentinella di pietra a testimoniare l'importanza del suo glorioso sacrificio.



domenica 12 maggio 2019

Faccia a faccia con un coltello


Ti sei mai chiesto cosa accadrebbe se un giorno fossi costretto ad affrontare un attacco di coltello. Onestamente, il mio primo istinto sarebbe quello di correre ... In un confronto con un coltello, l'unica certezza che esiste è che ci saranno tagli o, peggio ancora la possibilità di essere colpiti mortalmente.
In un attacco di coltello, non si può più parlare di combattimento, autodifesa, ma di sopravvivenza contro un individuo che vuole ucciderti, che non gioca per una vittoria, un riconoscimento, ma per la sua vita.   
Le tecniche e soprattutto la psicologia dello scontro sono totalmente differenti da quelli a cui sei stato abituato in palestra.
L'inserimento di un'arma in un conflitto, trasforma uno scontro da “rituale” a battaglia e ti proietta direttamente in strada (o nella giungla!) senza regole, senza compromessi.
Dovrai agire in un modo che probabilmente sarà contrario ai tuoi principi e alla tua educazione. Dovrai avere la capacità di muoverti rapidamente con un atteggiamento da artista marziale, combattendo con un puro istinto di sopravvivenza senza stato d'animo.
La tua risposta deve essere veloce, efficiente e brutale.
D'altro canto, non c'è da vergognarsi a fuggire da una situazione dove puoi lasciarci la vita.
Ma a volte le circostanze ci costringono ad accettare lo scontro, perchè ci troviamo in uno spazio chiuso, dove dobbiamo difendere qualcuno, o perchè non c'è un poliziotto, a neutralizzare chi ci minaccia.
Ecco perché dobbiamo imparare a difenderci.
Imparare l'autodifesa oggi è diventata una necessità, a causa dell'aumento del numero di aggressioni, mancanza di solidarietà e un senso di reale o percepita insicurezza.
Così, tante persone cercano una soluzione rapida nelle arti marziali.
All'inizio dell'apprendimento si potrebbe pensare che ci sono tecniche segrete per sbarazzarsi di qualsiasi attaccante. Ma più si procede con lo studio dell'arte del combattimento, tanto più ci si accorge che l'uomo è più importante della tecnica.
Il nostro cervello così acuto in alcune occasioni si può paralizzare dalla paura, nonostante la pratica regolare in palestra, egli può impedirci di rispondere in modo efficace.
Il primo passo per superare una situazione di emergenza è considerare la possibilità che accada.
La tecnica è importante, ma rappresenta solo una parte della legittima difesa.
La preparazione mentale, è altrettanto importante.
L'addestramento nella difesa contro i coltelli è una delle più difficili e più complesse, non c'è spazio per gli errori.
L'apprendimento deve essere il più realistico possibile con gli scenari, gli aggiornamenti le difficoltà e l'incapacità del tenere a fuoco il pericolo durante la realtà del combattimento.
Gli insegnanti di arti marziali devono essere il più onesti e responsabili possibili con i loro studenti. Non c'è niente di peggio che dare false certezze e troppa fiducia nelle tecniche studiate.
Possiamo dire che ci sono due serie principali di circostanze in cui possiamo trovarci coinvolti in un attacco con il coltello, attacco in cui si vede l'arma e quello in cui non si vede.
Nel primo caso, un individuo attacca dopo aver esternato le proprie minacce o intimidazioni con un'arma, o quando un individuo che durante una discussione o un momento di follia sequestra al primo un utensile tagliente.
In questi casi se è possibile prendi e mantieni una distanza di sicurezza oppure blocca e rispondi rapidamente e brutalmente.
Nel secondo caso, tutte le tattiche specifiche e le tecniche saranno difficili da usare e non possiamo certo fare affidamento sulla fortuna o la goffaggine del nostro aggressore.
Purtroppo il secondo scenario è il più comune, secondo statistiche statunitensi, l'80% degli agenti di polizia uccisi o aggredito con un coltello non ha visto l'arma.

Principi generali di sicurezza
Parametri da considerare:
L'attaccante ha l'intenzione di utilizzare il coltello per spaventare o minacciare? o per uccidere?

L'attaccante è sotto l'influenza di droghe o alcool, sembra avere problemi mentali?

Possiamo risolvere la situazione attraverso il dialogo?

L'attaccante è solo lui?

Il luogo in cui avviene lo scontro è alla luce o al buio?

Ci sono oggetti o mobili che mi potrebbero servire come protezione, o come una difesa?

Ho l'opportunità di scappare?

Puoi attaccare per primo? (migliore opzione)

L'aggressore ha uno o due coltelli?

Che tipo di coltello (dimensioni, a doppio taglio ...)?


Azioni da intraprendere contro un individuo armato di coltello:
Regola # 1: continua a muoverti, non essere un bersaglio fermo. Intanto studia il terreno.
(Oggetti, mobili che offrano una possibile protezione o per una possibile difesa).
Attenzione alle persone che ti circondano, spesso gli aggressori non sono soli.

Regola # 2: proteggere gli organi interni, Come difesa usa sempre la faccia esterna dell'avambraccio (sul lato interno sono posizionate le arterie e i tendini). A volte si devono usare tecniche definite di sacrificio, è meglio sacrificare la parte esterna degli avambracci che non la gola!

Regola 3: Mai andare a terra con un individuo armato di coltello. Mantieni la distanza di sicurezza, crea una situazione di stallo. Non cercare di disarmare il tuo aggressore con un colpo sferrato con la gamba. Puoi mancare il coltello e ti troveresti fuori equilibrio, ma soprattutto rischi che il tuo aggressore ti recida l'arteria femorale.

Regola 4: la difesa (blocco o parata) e la risposta devono essere simultanee. La risposta deve essere forte (alla gola o negli occhi) per destabilizzare il nostro avversario, seguito a catena da un secondo attacco, con cui è possibile disarmarlo, per neutralizzarlo o fuggire.

Regola 5: Se hai un bastone come arma, o un bastone telescopico, un tonfa, utilizza la lunga distanza per colpire.

Regola 6: Se sei riuscito a disarmare il tuo avversario fai attenzione quando stai per recuperare o rimuovere l'arma, attento che qualcuno non la recuperi prima di te.

Dopo lo scontro, quando tutto è finito, assicurati di non stare male. Molte persone che sono state tagliate con un coltello durante uno scontro non se ne rendono subito conto.
La Difesa contro un coltello è molto complessa, con molti parametri su cui basarsi per le tecniche, le tattiche, ambientale e soprattutto psicologico.
Tutto ciò richiede una formazione costante, specifica e il più vicino possibile alla realtà.
In questo campo di battaglia, come negli altri, si deve essere di mentalità aperta, sii curioso, non avere paura di rimettere in discussione tutto, segui molti corsi con insegnanti diversi che hanno stili diversi e che per ciascuna tecnica, saranno disposti a condividere con te le proprie esperienze.
Ma sappi che nessuno possiede la verità, e si sceglie quello che meglio si adatta, perché dopo tutto è la tua vita in gioco.

sabato 11 maggio 2019

Discipline esoteriche giapponesi: Kobudera, Shugendo, Mikkyo, Kuji Kiri...

L'interpretazione odierna delle arti marziali è ormai globalmente quasi sempre equivocata relegando in uno spazio sempre più esiguo una realtà molto rara.
Tecniche sviluppate in secoli di guerre, battaglie, duelli si sono ormai trasformate in uno sport o nel peggiore dei casi in spettacoli da baraccone... ma è davvero tutto qui, quello che rimane di tradizioni, leggende, cultura?
Davvero le tradizioni che hanno sfidato i secoli devono cedere l'onore delle armi alla modernizzazione, perdendo il loro vero obiettivo? O qualcosa è sopravvissuto...?
Molte Arti Marziali sono indissolubilmente legate alle religioni tradizionali orientali del luogo dove sono nate e si sono sviluppate, buddismo e taoismo in Cina, buddismo e shintoismo in Giappone solo per citarne alcune.
Eppure all'adepto viene insegnato ad uccidere, donando in molti casi la quasi certezza dell'impunità. Questo dualismo incomprensibile per la mentalità occidentale, è in realtà una condizione normale in oriente... Yin Yang, gli opposti che si rincorrono, si uniscono, la Luce che esiste come dualità dell'oscurità e viceversa...
Anche le Arti Marziali riflettono questa ideologia, con profondi studi di psicologia e sullo spirito da una parte, unito a tecniche che portano all'uccisione del nostro avversario come controparte, in una apparente contraddizione, che è tale solo se osservata superficialmente.
Questo si è riflettuto per secoli sui diversi "destinatari" dell'Arte.
Da una parte individui capaci di gesta straordinarie, gli Yamabushi, monaci guerrieri erranti che le leggende vogliono in possesso di poteri mistici, dall'altra i guerrieri dell'ombra, gli assassini silenziosi, i ninja, guardati con orrore e terrore da tutti, odiati perchè temuti...
Uomini che si trovano agli antipodi dell'arte, eppure cosi simili nelle conclusioni a cui sono giunti sul rapporto dell'uomo e della natura. E che praticano discipline esoteriche molto simili, che derivano da sette buddiste e da antiche credenze scintoiste: il Kobudera, il Mikkyo, lo Shugendo, il Kuji Kiri.
I primi le usano come mezzo per giungere all'Illuminazione, i secondi per aumentare esponenzialmente le proprie capacità "trasformandosi" così in infallibili macchine dispensatrici di morte. O almeno questo è quello che può sembrare a una prima occhiata, leggendo le poche (o molte) pubblicazioni che possiamo trovare in giro. In realtà la distinzione non è affatto cosi netta. Perchè in realtà quando un ninja usa le sue conoscenze per terminare una vita egli è solo un emissario del Karma, poiché sa che sta per commettere un'azione irreversibile...
Yamabushi e ninja, Shugendo e Kuji Kiri, leggende, storie, tradizioni profondamente radicate nell'animo di ogni giapponese, leggende, storie... nulla di vero dunque?
Solo trucchi da baraccone, suggestione e duro allenamento?
Forse. O forse no?
Perchè ancora oggi, nel moderno Giappone ipertecnologico, non è inusuale assistere a riti ancestrali che si perdono nella nebbia del tempo, quando un monaco, lacero e sporco, lascia il suo rifugio tra i monti e scende tra la gente dei villaggi.
Le Arti Marziali all'inizio del 21° secolo sembrano aver compiuto compiuto lo stesso percorso che ha portato il lupo ad essere addomesticato fino a diventare il tranquillo cane domestico che tutti conosciamo... ma non tutti hanno scelto questa Via... non tutti hanno abbandonato le zanne del Lupo... pochi eletti, in una società moderna e solo in apparenza radicalmente cambiata, percorrono la loro Via, e finchè loro esisteranno le leggende non moriranno, Shugendo e Kuji Kiri si perpetuano e si rinnovano, in un processo vecchio di secoli, nell'eterno, infinito processo di conoscenza di sè... come un cerchio che si chiude in eterno su se stesso.


Questo post è in tua memoria Maestro.
Prima da Maestro ad allievo.
Poi da Maestro a Maestro.
Infine da Padre a figlio.
Questa è l'arte.

giovedì 9 maggio 2019

Xu Huang

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Xu Huang (in lingua cinese 徐晃) (169 – 227) è stato un generale cinese durante il regno del signore della guerra Cao Cao e del suo successore, Cao Pi, durante la fine della Dinastia Han e i Tre Regni. È ricordato soprattutto per aver rotto l'assedio nella Battaglia di Fancheng (219).
Chen Shou, l'autore delle Cronache dei Tre Regni, considera Xu Huang tra i cinque generali del Regno di Wei, assieme a Zhang Liao, Yue Jin, Zhang He e Yu Jin.

Vita

Nato nella contea di Yang ((, oggi Hongdong, Shanxi) negli ultimi anni della Dinastia Han, Xu Huang lavorò in gioventù come ufficiale nell'amministrazione locale. Più tardi seguì il generale Yang Feng (楊奉) nella campagna militare contro l'Insurrezione dei Turbanti Gialli e fu nominato comandante della cavalleria (騎都尉).
Nel 196, dopo la morte del tirannico signore della guerra Dong Zhuo, Xu Huang e Yang Fen scortarono l'imperatore Xian da Chang'an a Luoyang, il quale da allora in poi cadde in rovina. Nello stesso anno, Cao Cao andò personalmente a Louyang per costringere l'imperatore a muovere verso Xuchang
Xu Huang allora suggerì a Yang Feng di entrare nelle forze armate di Cao Cao, ma Yang Feng non gli diede retta e inviò una truppa nel futile tentativo di respingere l'imperatore Xian. Cao Cao presto si vendicò e sconfisse Yang Feng, dopo di che Xu Huang si arrese a Cao Cao.
In seguito Xu Huang partecipò in ogni campagna maggiore di Cao Cao, incluse le offensive contro Lü Bu, Yuan Shao, Ma Chao, e Ta Dun (蹋頓). Xu Huang combatté bene in tutte, facendosi notare specialmente per la sua ingegnosità.
Durante la campagna contro l'erede di Yuan Shao nel 203, il difensore della città di Yiyang (易陽) inizialmente si arrese ma presto cambiò idea. Vedendo come si comportava, Xu Huang riconobbe i dubbi che turbavano il suo nemico e gli scrisse una lettera per persuaderlo ed incendiò la città. Il difensore fu sconfitto e Xu Huang conquistò la città senza spargimento di sangue.
Nel 215, Xu Huang si appostò nel Passo Yangping (陽平關) per difendere Hanzhong contro l'avanzata dell'esercito di Liu Bei, che tentava di troncare le rotte commerciali della città. Xu Huang si mosse in modo da colpire frontalmente l'esercito nemico. Molti soldati nemici caddero dal dirupo su sui combattevano di fronte al furioso attacco di Xu Huang e la città fu messa in sicurezza.
Il momento di maggior gloria nella carriera militare di Xu Huang avvenne nella Battaglia di Fangcheng, nel 219. Quando la città di Fangcheng (樊城), al giorno d'oggi un distretto di Xiangfan, Hubei, fu assediata dal generale nemico Guan Yu e i primi rinforzi inviati da Yu Jin furono sconfitti, Xu Huang fu inviato come un secondo rinforzo per aiutare e proteggere la città.
Sapendo che la maggior parte dei suoi soldati non avevano ricevuto un adeguato addestramento, Xu Huang non entrò direttamente nella battaglia ma si accampò dietro il nemico avendo così un effetto deterrente. Intanto, intanto ordinò ai suoi uomini di scavare trincee intorno alla città nemica di Yancheng (偃城) con l'idea di bloccare i rifornimenti alla città. I nemici furono così ingannati ed abbandonarono le loro posizioni. Xu Huang stabilì a Yan il suo punto d'appoggio.
In questo periodo arrivarono altri rinforzi coi quali l'esercito di Xu Huang attaccò l'accampamento di Guan Yu. Guan Yu inviò 5000 uomini a cavallo incontro all'esercito, ma furono sconfitte. Molti di questi soldati furono spinti nel vicino Fiume Han e annegati. L'assedio di Fangcheng fu rotto. Quando Cao Cao venne a conoscenza della vittoria, lodò Xu Huang e lo paragonò a Sun Tzu and Tian Rangju(田穰苴).
Quando Xu Huang fece ritorno, Cao Cao inviò sette li fuori dalla città per accoglierlo, dandogli pieno merito per la vittoria conseguita. Durante il ricevimento, i soldati di altri comandanti si spostarono in modo da dare modo a Cao Cao di vedere nel migliore dei modi, ma gli uomini di Xu Huang si fermarono ordinatamente in coda. Vedendo questo, Cao Cao lodò: "Il generale Xu ha veramente ereditato la classe di Zhou Yafu".
Dopo la morte di Cao Cao nel 220, Xu Huang continuò ad essere un uomo di fiducia del suo successore, Cao Pi. Divenne Generale del Diritto (右將軍) e marchese di Yangping (陽平侯). Quando Cao Rui subentrò a Cao Pi nel 227, inviò Xu Huang a difendere Xiangyang contro l'invasione del Regno di Wu. Xu Huang morì lo stesso anno di malattia, domandando una sepoltura in abiti non ufficiali. Gli fu dato il titolo postumo di marchese di Zhuang (壯侯), letteralmente "marchese robusto". Gli successo Xu Gai (徐該), che insieme ai discendenti di Xu Huang ereditò il titolo di marchese.

Romanzo dei Tre Regni

Il Romanzo dei Tre Regni è un romanzo storico scritto da Luo Guanzhong ed è una novellizzazione dei fatti avvenuti prima e durante il periodo dei Tre Regni. Xu Huang appare per la prima volta nel trediceismo capitolo, dove presta servizio a Yang Feng, un ufficiale militare nella capitale Chang'an. Insieme scortano l'imperatore Xian a Luoyang dopo la morte di Dong Zhuo, che teneva l'imperatore in ostaggio.
Quando Cao Cao arriva a Louyang per andare a prendere l'imperatore a Xuchang, Yang Feng manda Xu Huang a dissuaderlo. Vedendo il formidabile Xu Huang sul suo cavallo, Cao Cao conosce quest'uomo straordinario. Il signore della guerra mandò la sua guardia del corpo ed uno dei più fieri guerrieri, Xu Chu, a duellare col nemico.
Nessuno dei due poté avere un vantaggio sull'altro anche dopo cinquanta attacchi, e Cao Cao fu sorpreso dell'abilità di Xu Huang. Non volendo che nessuno dei due si facesse del male, Cao Cao chiamò Xu Chu alla ritirata. Venuto a conoscenza che il suo signore voleva reclutare Xu Huang, Man Chong, un suddito di Cao Cao e concittadino di Xu Huang, si ovffrì volontario per convincere Xu Huang a disertare.
Quella notte, Man Chong si travestì come un soldato comune e spiò nella tenda di Xu Huang. Dopo qualche tentativo di persuasione, Xu Huang cedette. Man Chong gli propose di uccidere Yang Feng per suggellare la diserzione. Comunque, Xu Huang fu onesto e rifiutò di uccidere il suo ex superiore.
Nel libro Xu Huang incontra la sua fine fuori Xincheng (新城), dove viene colpito in fronte da Meng Da dalle mura della città. I suoi uomini lo riportano immediatamente al campo, dove il medico rimuove la freccia e tenta di curarlo, ma alla fine il generale muore a notte fonda. Nel romanzo muore a cinquantanove anni, ma questo dato non è supportato da fonti storiche. Xu Huang è anche popolarmente considerato come uno dei più grandi generali di Cao Cao, al fianco di Zhang Liao, Yue Jin, Xiahou Dun.